Un’avidità senza fine

di Sergio Fontegher Bologna
Illustrazione di Marilena Nardi

Tre documenti, letti in successione, possono aiutarci a mettere a fuoco la situazione dell’Italia di oggi e a capire meglio le cose giuste da fare.
Il 29 settembre l’area studi di Mediobanca ha pubblicato il rapporto annuale Dati cumulativi di 1900 società italiane e lo ha presentato in questi termini: “Nel 2023 margini record per le imprese italiane”, che vuol dire in concreto “un ebit medio del 6,6%, il massimo decennale (5,8% la media 2015-2019) ma il miglior livello dal 2008”. Per crescita del fatturato sono in testa – guarda caso – le costruzioni, grazie alla droga del superbonus.
Poche settimane dopo un gruppo di studiosi della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma ha pubblicato i risultati di una ricerca intitolata: Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana (qui). Il direttore della ricerca prof. Riccardo Gallo, nel presentarla su “IlSole24Ore” del 22.10.2024, ha usato questi termini: “il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti (…)  Oltretutto gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni”.
Il 29 ottobre l’ISTAT pubblica la notizia flash Contratti collettivi e retribuzioni contrattuali, luglio-settembre 2024, che dice: “i 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 47,5% dei dipendenti (…) i contratti che – a fine settembre 2024 – sono in attesa di rinnovo ammontano a 29 e coinvolgono circa 6,9 milioni di dipendenti (il 52,5% del totale)”.
In questi tre documenti c’è tutto il rapporto di classe oggi in Italia. La maggioranza dei dipendenti lavora con contratti scaduti, significa diminuzione del salario perché i rinnovi ritardati in genere non riequilibrano mai il perduto, al massimo concedono qualche spicciolo di risarcimento per la vacatio. E in più c’è l’inflazione. Inoltre, gli aumenti in genere sono premi di risultato incorporati nel welfare aziendale, non finiscono in paga base. Dunque la diminuzione progressiva dei redditi da lavoro, in atto da decenni, continua alla grande. Gli utili vanno per l’80% agli azionisti, di quel magro 20% rimasto solo il 40% viene reinvestito in fabbrica, cioè l’8% del totale. Questo avviene quando i profitti sono alle stelle, figuriamoci che succede quando c’è aria di rallentamento o addirittura di crisi. Infatti, le trattative del contratto dei metalmeccanici e del contratto trasporti e logistica, tanto per citare due esempi significativi, sono al momento interrotte. Alle richieste dei sindacati i padroni hanno detto di no.
Dovessimo trarre una conclusione sul piano della forma stato, dovremmo dire che il sistema delle relazioni industriali nel nostro paese è saltato da tempo. Del resto è da decenni che in tutte le business school s’insegna che compito del management non è far crescere l’impresa ma remunerare gli azionisti. Erroneamente abbiamo chiamato questo finanziarizzazione, è guerra di classe. Ma è il lato visibile della questione, è la guerra “pulita”. 

Qual è la dark side, la guerra “sporca”? È il sistema di appalti e di subcontracting, dove regnano illegalità ed evasione fiscale. L’illegalità assume la fattispecie di “intermediazione illecita di mano d’opera”, più comunemente chiamata “caporalato”, vecchia conoscenza ma oggi, dove la base di reclutamento è costituita da forza lavoro immigrata, ricattabile perchè spesso priva di permesso di soggiorno o addirittura di documenti, si presenta in nuova e più spietata veste. Nella cosiddetta logistica rappresenta il 90% della forza lavoro, il che non significa che al 90% è illegale ma che una notevole componente è fatta di imprese che sotto le finte vesti del contratto d’appalto nascondono la vera natura di serbatoi di mano d’opera. Il Tribunale del Lavoro di Milano, grazie a un paio di magistrati – che una volta si sarebbero chiamati “magistrati coraggiosi”, ma che oggi sono guardati con sospetto – ha cercato di mettere un argine ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende. Non pesci piccoli, ma multinazionali del calibro di DHL, Geodis, Amazon, specialisti della home delivery. Hanno recuperato in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale (soprattutto IVA non pagata, contributi previdenziali non versati ecc.) e regolarizzato 14 mila lavoratori.
Ma poi c’è un terzo livello, un ulteriore girone di questo inferno, quello della schiavitù.

Conclusione: è difficile immaginare in una situazione come questa una reazione diversa dal conflitto. Perché non ci sono i margini. Solo il conflitto può frenare l’ulteriore degrado. Non sarà mica il salario minimo per legge! Perché lo abbiamo chiesto per 15 anni e quelli che oggi se ne fanno portavoce ci hanno detto di no, che non andava bene. Come non pensare che il loro dietro-front sia solo una manfrina per dar fastidio al governo? Il referendum? Va bene, firmiamo, ma non pensiamo che possa cambiare le cose.
A Roma, ai Ministeri sanno però che la pentola bolle e si premuniscono con il decreto sicurezza, che in alcuni suoi articoli (il 14 per esempio) sembrano disegnati apposta per contrastare i blocchi delle merci del settore logistica e home delivery. Ma in un sistema di relazioni industriali saltate sono l’unico modo per ricostituirle.
Sono passati solo sei-sette anni ma sembra un secolo da quando Larry Fink, CEO di Blackrock esaltava la sostenibilità e diceva “noi siamo per la sostenibilità proprio perché siamo capitalisti” e si diceva contento che i dipendenti alzassero la voce per mettere in discussione le scelte dei loro capi. Si scatenò allora nel mondo finanziario e imprenditoriale la crociata degli ESG, le banche giurarono che avrebbero negato i crediti alle aziende che non avessero dimostrato la loro correttezza nella gestione degli aspetti ambientali (E), sociali (S) e di governance (G). Ma poi è bastato il primo colpo di cannone sparato da Putin nel Donbass che i criteri politicamente corretti di ESG si tramutassero in una corsa agli armamenti.
E tutto questo è la metà. L’altra metà, l’attacco al lavoro cognitivo, alle professioni, la scuola, l’università, la fuga dei cervelli, la crisi profonda della middle class… qui si può scavare a lungo nel tunnel della finta indipendenza, dell’eterodirezione, delle piattaforme, della gig economy.
Postilla: quando si parla di questi problemi e si mettono in evidenza certi numeri il governo risponde con l‘argomento “ma l‘occupazione cresce, cosa volete di più?”
Non ci siamo capiti. Il problema in Italia non è che non si lavora ma che – pur lavorando – non si guadagna abbastanza per vivere, per fare progetti di vita, per aver riconosciute le proprie competenze, per essere rispettati sul luogo di lavoro. Come si spiega che l’occupazione cresce e la povertà aumenta? Come si spiega che l’occupazione cresce e la produzione manifatturiera è in calo da venti trimestri? Come si spiega che i laureati scappano all’estero? Come si spiega che il tasso di burn out nei luoghi di lavoro cresce vertiginosamente? Suvvia, signora Meloni, gentile overdog, non prendiamoci in giro. I dati sull’occupazione non si pigliano dall’ISTAT, che fa delle indagini a campione, ma da chi gestisce i dati amministrativi, cioè dall’INPS. 

 

*Aggiornamento dell’articolo uscito il 19 novembre 2024 su Officina Primo Maggio

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