Rito ambrosiano

di Sergio Fontegher Bologna
Vignetta di Pat Carra

Avrei voluto esserci il 6 dicembre a Sant’Ambrogio, una basilica dall’architettura straordinaria, che mi ha sempre impressionato. Ogni volta che ci entro mi sembra di riconciliarmi con quella Milano che sta diventando ogni giorno più incivile e più rischiosa per quelli della mia età. Esco che mi sento quasi rassicurato.
Il 6 dicembre monsignor Delpini, l’arcivescovo, ha trovato proprio il tono giusto nella sua omelia intitolata Lasciate riposare la terra. È riuscito a ridarci un po’ di fiducia, a dirci di non aver troppa paura. Ma non paura di Trump o di Netanyahu, paura della gente che ci passa accanto,  che ci siede vicino in metro incollata allo schermo del cellulare. Paura dell’inciviltà dilagante. Non del malgoverno, perché gli anticorpi per quello li abbiamo sviluppati da una vita.
Nelle prediche, in quelle del Papa o di tanti prelati, c’è sempre la frase giusta di condanna dei costumi del presente, ci sono anche intere frasi che fanno piacere. Ma sono punzecchiature, sembrano frasi d’obbligo. Qui invece è un’altra cosa: un discorso che toglie il fiato e per 30 minuti viviseziona come su un tavolo anatomico i guasti della civiltà moderna e di una metropoli. A questo non siamo abituati. Un discorso che affronta le grandi questioni della finanza, della cura, della guerra ma non tralascia aspetti più di dettaglio, dal rapporto con gli animali domestici agli Airbnb.
Ma allora è possibile ancora parlar chiaro? Ci sembrava che ormai un certo lessico fosse scomparso e che persino quello della chiesa di Bergoglio, pur apprezzabile, fosse in definitiva la recita di una parte che la storia le ha assegnato nella commedia umana.
Qui è l’insistenza a fare la differenza, il martellamento del concetto di ingiustizia. E capita in coincidenza con una delle esibizioni più grottesche del potere moderno: la riapertura di Notre Dame a Parigi. Uno spettacolo anch’esso inedito, perché collocato dentro una cornice religiosa. Neanche a Putin, che pur avrebbe potuto combinarla coi suoi pope ortodossi, è mai venuta un’idea del genere. Il grottesco dell’autocelebrazione di Macron (persino Trump là in prima fila sembrava imbarazzato) è risultato ancora più evidente dopo le parole di Delpini.
E che dire dell’ambiente meneghino? L’arcivescovo ha parlato nel momento più basso dell’amministrazione di Sala, con la speculazione immobiliare più selvaggia, più sfrontata, che se ne infischia di magistrature e di leggi, mafia/finanza allo stato puro.
E la prima della Scala? Che dire di quel palco reale dove chi si è investita (“si è cinta”, tanto per ricordare l’Inno di Mameli) della memoria della Shoah sta seduta accanto a chi rivendica il passato in cui si sterminavano gli ebrei? Il discorso di Delpini è come se nel bel mezzo del secondo atto dell’opera di Verdi un fischio lacerante – o una pernacchia – avesse squarciato l’aria del teatro.
Forse qualche persona, anche tra noi, dopo il primo entusiasmo già storcerà il naso (la Chiesa, l’aborto…). A me Delpini ha ricordato don Gallo, quel prete coraggioso, indomabile, amico dei miei amici camalli del porto di Genova, col suo sigaro in bocca e le parole che uscivano “vere” dalle sue labbra.

*Discorso alla città 2025, Basilica di Sant’Ambrogio, 6 dicembre 2024:
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