A chi fa comodo la guerra contro le donne

Intervista a Marisa Guarneri

di Pat Carra
Illustrazione di Marilena Nardi

La morte di Giulia Tramontano, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello, ha riportato in primo piano la violenza maschile sulle donne. Cosa pensi di questa ondata di attenzione e di emotività pubblica?
Il delitto ha fatto scandalo soprattutto perché è stato messo l’accento sul fatto che lei fosse incinta di sette mesi, che il bambino fosse già formato e che i morti fossero quindi due. Fosse stata lei sola, probabilmente non ci sarebbe stata questa attenzione.

Molte persone, compresi i datori di lavoro di Impagnatiello, ripetono che non doveva succedere.
In realtà è una storia prevedibile, nel senso che si poteva evitare. In queste situazioni bisogna sempre guardare al contesto, è quello che fa la differenza. Se intorno a una donna che è a rischio ci sono persone interessate sinceramente a lei, le cose vanno in altro modo. Se invece il contesto sociale non ha avuto sufficiente attenzione, dai colleghi e amici dell’omicida, al bar dei vip di Milano, a famiglie strane, ai vicini di casa…

La madre ha dichiarato “mio figlio è un mostro”.
Per fortuna ha preso una distanza, anche se con questa affermazione lo ha tirato fuori dalla normalità della violenza, una violenza che le donne vivono tutti i giorni. Gli uomini che ammazzano le donne, centinaia ogni anno, non sono tutti mostri, hanno problemi ma sono lucidi, sanno quello che fanno e perseguono in modo determinato i loro obiettivi.
In questo caso, perché definirlo un mostro? La madre sapeva tutto della vita del figlio e la sensazione di allarme era diffusa. Quello che mi ha stupito è che nessuno in quel contesto abbia chiesto aiuto ai servizi sociali, ai centri antiviolenza, a un medico, a una persona competente.

Una apparente normalità copriva i tanti segnali di pericolo?
Abitavano insieme da poco tempo. La situazione aveva versanti di totale normalità, compresi i comportamenti della donna che sono appunto “normali” per chi vive nella violenza: è facile che, con l’intento di difendersi, le donne cerchino di mediare con chi le minaccia. La violenza produce disistima di sé, insicurezza, perdita di contatti, isolamento, per cui le donne fanno molta fatica a reagire e la tirano in lungo più che possono. Nei centri antiviolenza lo sperimentiamo in molti colloqui. Nel caso di Giulia T., l’allarme è stato dato dalla seconda ragazza che proprio parlando con lei ha aperto gli occhi, non ha fatto entrare in casa l’assassino e si è salvata la vita.

Credi che le istituzioni siano davvero interessate a fermare questa guerra contro le donne?
Dagli anni ‘80 osservo i comportamenti istituzionali. I centri antiviolenza hanno fatto molta fatica ad affermarsi come luogo di competenza, e se ci siamo riuscite non è certo grazie ai progetti governativi, tanto che ancora oggi mancano i finanziamenti necessari. Non si tratta solo di problemi burocratici o di posizioni ideologiche.
Da 15 anni credo, e lo ripeto, che ci sia una non-volontà di eliminare la violenza dalla vita delle donne. Bisogna cambiare i comportamenti degli uomini rispetto alle donne, e anche, in certi casi, delle donne rispetto agli uomini. Intendo dire che la mancanza di rispetto, la gelosia ossessiva, il controllo, l’isolamento dalle altre figure familiari è una costante di tutte le situazioni di maltrattamento.
Ci sono elementi chiari per intervenire prima che succeda l’irreparabile, per aiutare le donne ad andarsene quando vogliono, anche con i bambini, quando è una questione di difesa personale.

Come mai non succede?
Se ancora non si è fatto un lavoro endemico su tutte le situazioni a rischio di violenza, è perché in fondo non è un interesse prioritario per la politica, non lo è mai stato. Che ci siano donne che subiscono, donne in difficoltà, donne che non fanno attività politica, fa comodo a tutti. Che le donne stiano al loro posto fa comodo a tutti.
Le istituzioni, anche finanziariamente, intervengono quando succede qualcosa di grosso, se ammazzano una donna al giorno, quando c’è una scossa nell’opinione pubblica come adesso. Allora spuntano progetti e finanziamenti, ma appena la situazione sociale si calma, riprende il tran tran burocratico, sempre lungo e difficile.
Io non ci credo, non ho nessuna fiducia in queste dichiarazioni delle istituzioni, tanto meno quando vengono fatte enfatizzando questioni di sicurezza e inasprimenti legislativi. E soprattutto quando prescindono dal rapporto con le donne e dal loro consenso, e dai rapporti con i luoghi di accoglienza come i centri antiviolenza e le associazioni di donne che se ne occupano da anni.
Si tratta di provvedimenti di emergenza, non di veri incontri, tutto è calato dall’alto. Ma una donna che viene picchiata per anni, o stuprata, o perseguitata da uno stalker, non può essere ingaggiata nell’esercito della repubblica e rispondere “ok, agli ordini!”.
Bisogna tener conto della sua situazione morale, psicologica, fisica, familiare e del contesto in cui si è mossa. Bisogna capire le complicità che a poco a poco emergono, perché nei casi di maltrattamento non si tratta di bravi ragazzi da cui non ci si poteva aspettare niente di male, quasi sempre non è così. E la violenza maschile è trasversale, a tutti i livelli economici e culturali. Non c’è niente che la fermi.

L’appello al cambiamento culturale come via d’uscita dalla violenza può essere una trappola?
È un discorso che va capito bene. Si dice che bisogna partire dalle scuole, ma nelle aule entra chiunque tranne le persone che possono essere di grande aiuto per insegnare, dall’asilo in poi, il rispetto per tutte e tutti. Questa sarebbe un’azione concreta.
Si parla di superamento del patriarcato e di cambiamento culturale, senza capire cosa si sta dicendo. Ci si riempie la bocca di cose che una volta erano state scoperte e approfondite nell’esperienza dei centri antiviolenza, ma che ormai sono diventate parole vuote. Per costruire relazioni con le donne maltrattate, ci si deve coinvolgere in prima persona, le loro problematiche devono diventare una priorità per chi le segue.

Come valuti i progetti e i corsi per uomini maltrattanti?
Dopo circa vent’anni dalla nascita dei centri antiviolenza creati dal femminismo, dagli anni 2000 le istituzioni hanno importata da altri paesi una serie di contenuti sul tema della violenza maschile. Non mi meraviglio che a questo punto i governi siano stati molto disponibili a finanziare progetti di sostegno per uomini maltrattanti, luoghi di accoglienza, case, corsi.
A favorirli ci sono lobby come quella dei padri separati, che contestano le statistiche sostenendo che gli uomini maltrattati sono più numerosi. Poi le lobby degli specialisti, quelli che intervengono nei tribunali, gli psichiatri, gli avvocati, uomini e anche donne.
L’unica cosa positiva, molto importante perché è un dato simbolico, è che finalmente la violenza è vista come un problema degli uomini. È il risultato di 50 anni di lotte delle donne, una conquista.

Prevedi che Alessandro Impagnatiello finirà in un progetto di sostegno?
Non credo, anche perché ci vuole un lungo percorso prima che loro ammettano di avere sbagliato. Ma poi, uno che parla così…

Quali vantaggi concreti ci sono per i maltrattanti?
Agli uomini che sono sotto accusa o già in carcere, la partecipazione a questi progetti fornisce riduzione delle pene o dei trattamenti. È un elemento molto utilizzato all’interno dei processi.
Ci sono interessi molteplici e di lobby, e un dato psicologico fortissimo: fare qualcosa nel carcere o fuori, a Milano per esempio c’è un centro comunale, abbatte il discorso “tutti gli uomini sono cattivi” e apre alla possibilità del cambiamento.
Su questo aprirei un bel dibattito: quanto e come può cambiare chi ha ucciso? Io mi incazzo quando vedo che i fondi destinati ai centri antiviolenza non arrivano e invece si aprono i centri per uomini maltrattanti. Non ho le cifre, ma a livello burocratico ottengono tutto con meno fatica e più rapidità. CADMI* non riceve da anni finanziamenti dalla Regione Lombardia, tanto per dirne una. C’è una complicità fondante e chi muove i finanziamenti ha le sue priorità.
Nel caso delle donne maltrattate, i ritardi e gli inceppi dipendono dal fatto che vengono considerate donne a perdere, donne che non ce la faranno mai. I centri antiviolenza si occupano di percorsi di uscita dalle case rifugio, di inserimento lavorativo, di corsi di aggiornamento, affrontando queste difficoltà.
Questo non mi sembra giusto. Sono di parte, ho sempre scelto di essere di parte, sto dalla parte delle donne.

*Marisa Guarneri è tra le fondatrici e presidente onoraria di Cadmi, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, il primo centro antiviolenza italiano aperto nel 1986. Cadmi fa parte dell’Associazione nazionale D.i.Re, donne in rete contro la violenza, che ha scritto: Un pacchetto di proposte che cavalca un’onda emotiva

 

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