Afghanistan: le donne che conosciamo

di Marisa Guarneri
Illustrazione di Marilena Nardi 

Oltre vent’anni fa con la Cadmi (Casa delle donne maltrattate di Milano) ho incontrato un gruppo di giovani operatrici della casa rifugio di Kabul, l’unico shelter del paese a quei tempi, super controllato e protetto, che accoglieva donne da tutte le città dell’Afghanistan. Facevano da tramite per noi le donne del Cisda (Centro sostegno donne afgane), legato a RAWA. Per una settimana, alla mattina facevamo lezioni e incontri, poi si pranzava insieme – loro mangiavano pochissimo, ricordo – e al pomeriggio facevamo esercitazioni. Raccontavano la loro pratica: stavano con le donne in fuga dalla violenza a lungo, anche per mesi, prima che si creasse la fiducia necessaria a uno scambio verbale, e fino a quel momento c’era solo un rapporto di sussistenza: mangiare dormire accudire bambine e bambine. Loro non forzavano assolutamente niente finché queste donne, questi corpi, non si avvicinavano e solo allora, dopo molto tempo, veniva fuori l’abbraccio, la lacrima anche senza parole.

Le donne afgane esistono

Le afgane sono donne libere che sfuggono all’oppressione sessista e sessuale, alla sharia che le vuole ridurre al silenzio. Non ci sono parole per definire donne coraggiose che salvaguardano ciò che hanno conquistato, mi incazzo per la semplificazione dei politici e dei media che parlano di clandestine come fossero tutte uguali. Dopo gli anni ’70 entrare in clandestinità significa essere terroriste disponibili a usare le armi, mentre dire donne nascoste sembra una resa. In realtà molte sono attiviste, come le madres di Plaza de Mayo fondatrici di una democrazia in Argentina. Sono donne che lottano per esistere, minoranze disconosciute che riescono a ottenere dei risultati importanti per tutti.
I media e i politici occidentali cercano di interpretare le afgane secondo i nostri canoni, sfornando false verità e producendo danni molto forti. Quello che emerge è soprattutto emarginazione, povertà, vedove per strade senza cibo, divorziate, bambine vendute per avere soldi in famiglia… una fascia di miseria femminile che è reale ma non c’è solo questo! Ci sono le donne che fanno impresa, le insegnanti, le giornaliste molto presenti, le studenti, le attiviste, e c’è la differenza tra città e campagna, perché quanto più ci si allontana dalla città tanto più le famiglie sono patriarcali e le donne stanno peggio.
Ogni donna ha fatto percorsi diversi, da quella che è andata via dall’Afghanistan, a quella che è rimasta e ha combattuto, a quella che è rimasta senza il coraggio di combattere, impantanata in situazioni terrificanti.
Le donne afgane non sono una categoria, anche se tutte vogliono tirarsi fuori dalla miseria e dalla fame, e poi viene tutto il resto. Molte sognano di potersene andare, tranne le combattenti; molte fanno parte di associazioni e perseguono obiettivi in modo determinato; alcune sono martiri, come scelta responsabile. In questi ultimi giorni le abbiamo viste manifestare nelle strade, non si nascondono, hanno un coraggio che mi fa venire i brividi. La loro forza riscuote una solidarietà planetaria.
Tutte le donne povere e misere del mondo hanno bisogno di cambiare vita, soprattutto quelle che si sono sedute nello status quo. E aggiungo anche quelle ricche, che hanno un ruolo sociale e si sono sedute nei posticini radical chic. In Italia anche donne ricche, influencer e imprenditrici, hanno usato le loro risorse per salvare delle vite, lo hanno fatto attraverso istituzioni, ministro degli esteri, appelli a Mario Draghi, con un tam tam mediatico, con la forza del denaro e un notevole sfruttamento della propria immagine. Ma poi?

Vittimaio impacchettato

Fare di ogni donna un fascio è un approccio distruttivo, perché di fronte agli interessi politici e finanziari spariscono quelli delle donne.
Sono convinta che ci sia una vera e propria strategia di abbassare tutte e tutti allo stesso livello, quello del pietismo, della lacrima e della commozione, così non ti preoccupi più di capire e fai solo elemosina.
Le vittime non sono più solo vittime, diventano vittime miserabili, accorpate in un impacchettamento vittimistico, banalizzate e ridotte a una categoria. Allora pensi che basti dare da mangiare e dormire, come si fa con i profughi che vengono da altre forme di persecuzione. E intanto non si distingue neanche chi passa il deserto o il mare, chi fa la strada della Bosnia, che è la peggiore, da chi arriva sui barconi.
Il mainstream accomuna tutti, anche la sinistra. Il rischio è che l’accoglienza si trasformi in procedure, cioè in strategie difensive inconsce o consce, per non entrare nella sofferenza altrui. Anche nei nostri centri antiviolenza si corre questo rischio.
È necessario avere autenticità e competenza per aiutare chi soffre, e io mi sento una irriducibile.

Corridoi umanitari?

Penso che non faranno i corridoi umanitari dall’Afghanistan. Se nessuno si impegna a progettare un piano specifico, chi riuscirà ad arrivare in Europa non avrà un percorso privilegiato, resterà anni ad aspettare un permesso di soggiorno che l’Europa non dà.
Senza una pratica della relazione, uno scambio e un progetto politico, si rischia di portare qui le persone e sbatterle da qualche parte. Già si parla di siti abbandonati o ex caserme. C’è un equivoco di fondo: è ovvio che le risorse messe a disposizioni sono positive, ma non bastano. Le donne non hanno solo bisogni materiali, hanno soprattutto bisogno di superare il trauma. La via vincente, sperimentata dai centri antiviolenza, è la relazione tra donne, ascoltare e non decidere sulla loro testa. Accoglierle in questo modo non è un lusso e le donne se lo meritano. Tutte.

*Marisa Guarneri è cofondatrice e presidente onoraria di Cadmi (casa donne maltrattate di Milano)

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