di Laura Marzi
Foto di Gianni Pezzani 1988
Credo di avere capito qualcosa della didattica a distanza solo una settimana fa, quando in occasione della riapertura sono uscita a fare una passeggiata e ho incontrato un gruppo di mie alunne sedute su una panchina. Le ho intraviste dalla macchina, ho accostato rapidamente, sono scesa veloce: ero emozionata. Vederle in carne ossa, poter fare loro delle domande senza che tra di noi ci fosse uno schermo, dei meccanismi tecnologici del tutto sconosciuti a me e a loro, mi sembrava un avvenimento importante, una scossa.
Loro ovviamente mi hanno vista sbracciarmi dall’auto, parcheggiare sul marciapiede e avvicinarmi, non troppo, ma non si sono emozionate. Ho trovato accostandomi gli stessi volti spenti e sospettosi che vedo durante le lezioni online. Ho chiesto loro come andasse. Una ragazzina che non si è mai connessa mi guardava con astio: l’ho rassicurata, era vero che non mi importava troppo che non avesse partecipato, volevo solo sincerarmi che tutto andasse bene e le ho detto che poteva farsi vedere almeno in queste ultime settimane.
Mi sono fermata a interloquire con loro, a distanza, solo per pochi minuti e poi sono andata via: “cercate di riprendervi, il prima possibile. L’umanità esiste, anche se vi è sembrato il contrario negli ultimi mesi”. Dalla gioia che mi aveva spinto verso di loro, il rinculo della rabbia mi allontanava da quel piccolo assembramento adolescenziale.
Tutte dimentichiamo: i nostri difetti, i meccanismi delle nostre relazioni, che abbiamo dei vizi e delle cattive abitudini. Dimentichiamo di aver preso delle posizioni, di aver detto che mai e poi mai. Anche le ragazzine, gli alunni lo hanno fatto.
Si sono dimenticati ciò che tante volte ho ripetuto loro dicendo la verità: di non essere la loro madre, di interessarmi alla loro vita privata molto meno di quanto pensassero, di desiderare il meglio per ognuna e ognuno di loro e che mia responsabilità era essere la loro docente. Insegnare delle nozioni, ma soprattutto un modo di relazionarsi agli altri, di rispettare se stessi.
Anche prima dell’emergenza sanitaria esisteva una distanza nella didattica. Non quella tra la mia scrivania e la loro in questi mesi quanto mai anomali, ma la distanza che aiuta a non far prevalere le emozioni quando insegni: la frustrazione, la rabbia, la gioia di quando in un’alunna o un alunno ritrovi un’affinità o vedi una meraviglia. È lo spazio percorso dalle parole fra me e loro, dal silenzio, dagli sguardi spesso più didattici delle ramanzine. Più che di sicurezza è una distanza di garanzia, perché essa scaturisce dal rispetto di quella differenza e sostanziale estraneità che esiste tra noi.
Per la prima volta, in questi mesi di lontananza da scuola, quando mi sono allontanata da loro e dal loro sguardo triste e poco irriverente, mi sono sentita preoccupata, delusa, sconfitta: io e le mie alunne non sapevamo più stare né vicine né lontane, alla giusta distanza.