Anniversario della pandemia

di Robin Morgan
Traduzione di Margherita Giacobino
Illustrazione di Marilena Nardi

 

Guardando indietro mi rendo conto che ho menzionato per la prima volta il Coronavirus il 26 gennaio del 2020 e che dal 1° marzo questo argomento è stato molto presente nei miei scritti, insieme alla previsione che non ce ne saremmo liberati così presto come quasi tutti ritenevano. Ora, dopo molte tribolazioni, siamo effettivamente in una situazione in cui possiamo almeno immaginare, se non considerare seriamente, cosa faremo dopo. Il passato è un prologo, perché la storia ha molto da insegnarci.

Mi fa piacere raccomandare qui due libri: uno è il notevole Storia delle epidemie. Dalla Morte Nera al Covid 19 di Frank Snowden e l’altro è Plagues and the Paradox of Progress di Thomas J. Bollyky. È interessante notare che nessuno dei due libri profetizza ciò che la maggior parte delle persone sembra dare per scontato: che la vita tornerà più o meno alla “normalità”. Accantoniamo subito questa ipotesi. Non succederà, certo non nel modo in cui lo immaginiamo, e molto probabilmente in misura neanche lontanamente paragonabile a quella che immaginiamo. Noi pensiamo che lavoreremo di più da casa, che ci saranno cambiamenti nel lavoro, forse anche nelle carriere, e magari cambi di residenza, e ci sembra di pensare in grande.

Immaginiamo che le nostre abitudini di shopping si spostino verso l’online e le consegne. Vediamo il successo travolgente di aziende come Amazon e Zoom, e c’è chi rimugina su grandi cambiamenti in interi comparti. Ma neanche questo è pensare abbastanza in grande, nel lungo come nel breve periodo.

Non ci rendiamo conto di quanto profondo sia stato l’effetto di pestilenze, epidemie e pandemie sulla storia. La nostra storia.

Tucidide descrive una pestilenza nel secondo anno della guerra del Peloponneso che arrivò nel porto del Pireo attraverso l’Egitto e la Libia, uccise un quarto dell’esercito e innumerevoli abitanti e lasciò Atene in un’anarchia senza precedenti. Nel 541 d.C. la peste di Giustiniano, ora ritenuta peste bubbonica, si diffuse lungo le linee di rifornimento marittime fino a Costantinopoli, devastando il mondo mediterraneo in 18 ondate con una media di un’epidemia ogni 12 anni. Alla fine del settimo secolo i ripetuti attacchi avevano dimezzato la popolazione, accelerando il collasso dell’impero bizantino. Quando la stessa malattia arrivò nei porti della Cina nel 610, la dinastia Tang, già indebolita, perse il controllo sulla Via della Seta, e il commercio tra Europa e Asia praticamente ebbe fine. La peste nera, comparsa verso il 1330, in sette anni sterminò un terzo dell’intera popolazione europea, con assalti letali e intermittenti, e gli abitanti del continente ne subirono le conseguenze per quasi 300 anni. Il sistema del feudalesimo si dissolse. C’erano stati troppi morti per poter continuare a sostentarsi sulle enormi tenute dei grandi signori. Così i contadini si dispersero, scoprendo a poco a poco che potevano guadagnarsi da vivere nei paesi e nelle città facendo i calzolai, i bottai, i fabbri, trovando lavoro come carpentieri, muratori, carrettieri. Dal loro lavoro e da questi gruppi emergenti, che alla fine divennero corporazioni, crebbe la classe media europea.

Cambiamenti storici massicci, sismici: questo è pensare davvero in grande.

Raramente ci fermiamo a chiederci quali siano le origini dei salti che il progresso ha fatto, ma molti, per non dire la maggior parte, sono avvenuti sulla scia di piaghe e pandemie. Quando la società è scossa fino al suo nucleo, quando viene rasa al suolo, la disperazione può diventare ispirazione e stimolare, ironicamente, il pensiero creativo.

Il concetto di quarantena fu ideato nella Venezia del 14° secolo dopo una pestilenza. Nel 1790, quando Napoleone Bonaparte cercò di ristabilire l’istituzione della schiavitù ad Haiti dopo le rivolte degli schiavizzati, fu costretto ad abbandonare la campagna a causa della febbre gialla, che massacrò i francesi ma non gli haitiani che avevano sviluppato l’immunità. La stessa teoria che la malattia fosse causata da germi fu un altro risultato sorprendente: all’inizio del XIX secolo, l’opinione prevalente era che il colera derivasse dai costumi dissoluti di chi si ammalava e dai gas velenosi emanati da ambienti sporchi nelle acque stagnanti (e si può immaginare il dolore e la sofferenza che queste due diagnosi selvagge provocarono!). Poi, nel 1854, questa superstizione fu sgominata dallo studio del medico John Snow che individuava la fonte dell’acqua contaminata che diffondeva il colera in una pompa d’acqua in Broad Street a Londra. Le successive scoperte di Robert Koch, Joseph Lister e Louis Pasteur fornirono la base scientifica per quell’osservazione, stabilendo che erano i microbi, non gli odori o la morale, gli agenti della malattia. A loro volta queste scoperte diedero origine ai nuovi campi dell’epidemiologia e della microbiologia, e portarono all’identificazione dei microrganismi causali di tubercolosi, colera e tifo, e altre malattie infettive. Forse ancora più importante, la teoria dei germi ha contribuito alla nascita di sistemi di salute pubblica che mettessero in pratica tali idee scientifiche per il bene della collettività.

Lo storico Mark Harrison ha sostenuto che le malattie infettive hanno persino creato le condizioni da cui è emerso lo stato moderno e la sua macchina di governo. I tipi di misure intraprese – quarantena, vaccinazione, riforme delle abitazioni, igiene e sistemi di acqua sicura – hanno costretto i governi ad affrontare la sfida di trovare provvedimenti di regolamentazione sociale che rispettassero i difficili equilibri tra la garanzia del bene pubblico e la tutela dei diritti individuali. Di conseguenza, questa lotta ha creato i precedenti per altre forme di regolamentazione sociale, come la scuola dell’obbligo, il miglioramento della pubblica amministrazione e gli investimenti nelle infrastrutture urbane. All’inizio del XX secolo, negli Stati Uniti c’erano quasi 1700 sistemi idrici pubblici e i governi delle città spendevano più per loro di quanto il governo federale destinasse a qualsiasi altra cosa tranne il servizio postale e l’esercito.

È certo che le pandemie hanno causato panico, caos e morte, e sono state anche orrendamente usate come armi di sterminio. Entro 200 anni dal primo contatto, tre quarti delle popolazioni native delle Americhe erano scomparse, soprattutto a causa di malattie infettive. Lo storico William McNeil ha identificato nel vaiolo e nel morbillo le ragioni per cui, nel 1521, Herman Cortez con meno di 600 uomini fu in grado di conquistare l’impero azteco, che contava milioni di sudditi. È certo che le condizioni di povertà, la mancanza di igiene e di servizi medici, così come l’ignoranza della popolazione, aiutano e favoriscono le epidemie. È certo che alcune malattie specifiche – la tubercolosi, per esempio – sono state romanticizzate diventando la “consunzione” nel XIX secolo, mentre altre, come il colera, con la sua perdurante diarrea, il vomito e la disidratazione, o il vaiolo, hanno notoriamente subito il destino opposto.

Le pandemie sono qualcosa di più di quel che ne pensiamo noi, ma lo sono anche i loro risultati. Fu dopo un’epidemia di colera, nel 1866, che la città di New York istituì il Metropolitan Board of Health, che fu seguito da simili provvedimenti a Chicago, Milwaukee, Boston e in altre grandi città statunitensi. Tra i primi compiti intrapresi da questi nuovi consigli di salute pubblica urbana fu il divieto di lasciar circolare liberamente maiali e capre e l’obbligo per i proprietari di immobili di collegarsi ai nuovi acquedotti e fognature in costruzione. Gli effetti furono a catena. Le commissioni sanitarie cambiarono le leggi sugli alloggi, il che rese necessaria la pulizia delle strade. Questo richiese finanziamenti significativi, che poi richiesero prestiti e obbligazioni a lungo termine, cambiando il sistema finanziario. Il che a sua volta fu seguito da investimenti urbani come ferrovie interurbane, porti, autostrade, canali e tram. E per costruire tutto questo occorreva una migliore educazione per un maggior numero di persone.

L’ignoranza e la superstizione risorgono sempre in tempo di peste, e si esprimono nel trovare un capro espiatorio, che saranno, a scelta, i rifugiati, gli immigrati, gli stranieri, gli ebrei, i cattolici, le levatrici (un grosso errore perché poi si demonizzano anche i gatti, i loro cosiddetti familiari se sono streghe, e i gatti vengono uccisi a centinaia, così non possono prendere i topi, che diffondono la peste bubbonica) – in sintesi, nel dare la colpa a chiunque per aver portato la malattia quando 1) di solito è una malattia che è sempre stata lì, e 2) cosa importa? Oggi, gli immigrati, i musulmani e i cittadini asiatici americani stanno sopportando il peso della persecuzione negli Stati Uniti. Lo abbiamo visto di recente e in modo orribile negli omicidi di donne asiatiche americane in Georgia – una serie di omicidi di terrorismo interno che uniscono misoginia e razzismo e dimostrano ancora una volta che il terrorismo interno maschile eterosessuale suprematista bianco è la più grande minaccia attuale dell’America, e lo è già da un po’. E sempre in questi momenti risorgono versioni di quello che ora conosciamo come il fenomeno QAnon: la credenza nelle cospirazioni, il terrore paranoico dell’Altro, il nazionalismo, lo sciovinismo, qualsiasi forma di odio su cui la paura possa mettere gli artigli.

Non possiamo sapere in quali forme il futuro deciderà di arrivare, ma questo lo sappiamo e su questa base stiamo già agendo: sappiamo che è dannatamente meglio iniziare a pensare subito, in modo da poter avere voce in capitolo, perché dobbiamo avere voce in capitolo nel determinare quali forme prenderà il futuro e come verranno modellate queste forme.

*L’articolo è stato pubblicato il 23 marzo sul blog di Robin Morgan

 

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