Non ho mai smesso di pensare che ogni cosa possa ancora accadere
di Lara Gastaldi
Illustrazioni di Isia Osuchowska
La prima volta che ho sentito parlare della signora Aurelia è stato nel corridoio del mio servizio sociale, era arrivata la nipote per prendere un primo appuntamento e non voleva aspettare, insisteva per parlare con un’assistente sociale.
La sentivo urlare fin dal mio ufficio: E che sarà mai chiedere un secondo per parlare con un’assistente sociale? Quante storie, sembra di voler essere ricevuti dal Papa.
Era la quarta persona che oggi mi gridava addosso.
Quintali di rabbia scaricati sulla mia scrivania, ora basta. Erano le tre del pomeriggio ed ero stanca, al limite, non ne potevo più di accogliere, contenere, restituire, riconoscere che la rabbia è un segno di sofferenza che l’altro ti porta e non un attacco personale.
La mattina presto aveva cominciato Faruch, un marocchino di 30 anni con moglie e due figli, prima ancora di sedersi mi aveva urlato che noi aiutiamo solo gli italiani e che per lui non c’è mai stato nessun aiuto perché straniero e marocchino. Urla piene di stanchezza, di ingiustizie subite, di lunghe code in Questura per il rinnovo del permesso di soggiorno, di fatiche e di malinconie, lontano dal suo paese d’origine e con i figli che crescendo si vergognano di lui.
Poi alle 10.30 era entrato Verucelli, un invalido solo, da un anno in attesa dell’assegnazione di una casa popolare. Si era seduto di fronte alla mia scrivania e aveva iniziato a imprecare: Voi aiutate solo gli extracomunitari, le case le date tutte a loro, ma sì manteniamoli tutti, facciamoli arrivare e per noi italiani niente.
Parole impregnate di rabbia, della fatica di un’attesa snervante, dello stress di continuare a stare in una casa malsana e umida, senza ascensore, della paura di vedere infranti i suoi sogni di una casa migliore.
Per concludere la mattinata era arrivato Nicolaj, un albanese di 50 anni che mi chiedeva un lavoro in giornata, aveva sentito dire che il Comune dà lavoro ai disoccupati, li manda nelle scuole o nei giardini. Mi aveva insultata dopo essersi sentito dare delle informazioni e non il tanto atteso posto fisso. Gridava che noi aiutiamo solo i marocchini. Gli albanesi come lui non li aiutiamo perché per noi sono tutti delinquenti e violentatori ma lui è onesto, le nostre leggi sono ingiuste.
Nicolaj, un uomo grande e grosso, si era anche messo a piangere durante il colloquio, raccontandomi del suo paese, dei genitori anziani che non vede da due anni e del suo desiderio di abbracciarli.
I colloqui alla fine erano andati bene, mi sentivo soddisfatta, ma ora avrei volentieri precisato a quest’ ultima ululante signora che non poteva pretendere di essere ricevuta seduta stante, che alle Asl un esame si aspetta mesi e che qui si tratta solo di una settimana e che non deve urlare, che le sue pretese sono assurde, che non può interrompermi, che io sto lavorando e non sono in vacanza e che…
Al mio arrivo in sala d’attesa la signora si placa, cambia tono, mi racconta che non è qui per lei ma per sua zia anziana che è sola, non ha figli, lei è preoccupata per le sue condizioni di salute.
Mi chiede se posso andare a trovarla perché la zia mai chiederebbe aiuto a un servizio sociale. Quando lei ha provato ad accennarlo, la zia l’ha liquidata in fretta: Che il Municipio aiuti chi ha più bisogno di me.
Ha la testa dura, vuole sempre fare da sola e a modo suo, ha 90 anni compiuti e non si cambia a quell’età, aggiunge la nipote.
Ricordo ogni movimento, ogni parola dell’ora e mezza che ho passato con Aurelia.
Esco dall’ascensore e mi trovo una porta aperta, chiedo permesso e una voce flebile mi dice di entrare.
Aurelia ha i capelli bianchi mossi e spettinati, occhi chiari, un viso pieno di rughe, un grembiulino sull’abito. La schiena molto ricurva la rende ancora più bassa. Una brutta scoliosi le piega il capo verso il basso e per guardarmi fa uno sforzo, contrae il collo, si spinge all’indietro, finalmente i nostri sguardi si incrociano.
Mi fa segno di seguirla, colgo diffidenza e ostilità negli occhi, la seguo lenta verso la cucina. Si siede sulla sedia più bassa, piena di cuscini, e io di fronte a lei.
Una cucina essenziale, con un gas a tre fuochi, tipo fornello da campeggio, sopra un mobiletto basso. Mi chiede subito se prendo il caffè, aggiunge che non vuole farmi perdere tempo e che lei non ha bisogno di niente. Ha litigato con sua nipote perché sente che non si fida più di lei, che non vuole lasciarla a casa: Io lo so che lei pensa che da un momento all’altro potrei fare saltare in aria la casa, ma non è così e non riesco a tranquillizzarla.
Le dico che sono venuta a conoscerla, per farle sapere che aiuti può eventualmente darle il Comune. Spetta a lei decidere se le serve qualcosa che può farla stare meglio nella sua casa. Mi guarda interrogativa con la caffettiera in mano, le rispondo che se mi fa compagnia lo prendo volentieri il caffè.
Alla parete c’è un calendario su cui sono segnati la quantità e il tipo di medicine da prendere. Sulla giornata di oggi con un pennarello rosso in stampatello c’è scritto il mio nome: “VISITA GASTALDI”, sulla giornata di ieri “Posta ritiro pensione”. Su ogni giorno c’è una cosa da fare. Una cosa al giorno, ieri in posta, oggi la mia visita, l’altro ieri dal medico, sembra non ci sia posto per niente altro. Com’è dilatato e lento il tempo quando si hanno 90 anni.
Il tempo dei minuti e dei secondi batte nelle lancette del mio orologio, mi scandisce che dovrei andare perché tanto la signora Aurelia non sa che farsene degli aiuti del Comune e io in ufficio ho tante cose da sbrigare, ma un tempo diverso, fatto di istanti irripetibili, mi bisbiglia qualcosa all’orecchio, mi trattiene di fronte ad Aurelia che intanto ha preso in mano un barattolo di caffè Illy. Mi dice che dentro non c’è il caffè Illy perché costa troppo, ha bevuto quello che le avevano regalato poi non l’ha più ricomperato, adesso dentro c’è una sottomarca. E’ buono lo stesso sa, io l’Illy non me lo posso permettere, ma mica è una tragedia, ne ho viste così tante di tragedie in vita mia che so distinguere.
Ridiamo insieme. Aurelia ha il fiato corto, fa lunghe pause in cui, semplicemente, resta in silenzio e mi guarda. Le chiedo come sta, quali sono le sue condizioni di salute.
Soffre di seri problemi alla schiena, di enfisema polmonare ed è per quello che parlando respira a fatica e ansima, inoltre ha problemi di diverticolosi e, da poco, è allergica a un sacco di alimenti per cui può solo mangiare determinate cose che ha scritto in un biglietto grande appiccicato sul frigo.
Mi stupisco di come possa vivere da sola in quelle condizioni. Glielo chiedo. Lei mi risponde ridendo, con una punta di orgoglio: Di salute sto abbastanza male, però la mia testolina funziona e mi aiuta a fare tutto ciò che necessita per vivere da soli. Lo sa, proprio perché sono sana di testa non mi danno l’accompagnamento, mi hanno riconosciuto solo il 96% e così non ricevo neppure un aiuto per vivere.
Mi sembra folle che non le sia stata riconosciuta l’invalidità al 100% e le suggerisco di presentare ricorso.
Mi racconta che vive in questa casa da vent’anni, il proprietario le ha aumentato più volte l’affitto.
Non mi faccio intimorire io, lui non sa di avere a che fare con una battagliera, ho controllato l’aumento ISTAT, perché io mi tengo sempre informata, lui voleva fregarmi, mi ha aumentato più di quello che per legge mi aspettava, ma io gli ho risposto per le rime.
Apre una busta e mi fa vedere la lettera che gli ha mandato, con la scrittura un po’ tremante ma chiara e “in bella calligrafia”: “Egregio sig. P., le comunico che il suo conteggio ISTAT è errato, pertanto voglia cortesemente prendere atto dei seguenti conteggi da me ricalcolati, poiché non sono affatto disposta a versare di più di quello che per legge le aspetta, nel caso voglia ulteriori chiarimenti, prego mettersi in contatto”.
Poi ridendo mi dice che il proprietario non le ha risposto ma non ha osato alzarle la cifra, accettando i calcoli da lei fatti.
Arrivano i ricordi, le parole diventano un fiume in piena, la signora Aurelia ha voglia di raccontare e non le importa di sapere se e come la può aiutare il Comune.
Il padre di mio marito possedeva una piccola fabbrica, produceva serrature, nel 1936 quando mi sono sposata mi sono messa a dirigere questa fabbrica, ero affiancata da mio marito ma in realtà ero io che tenevo le fila. Sa, nel matrimonio non sono stata fortunata. Mio marito aveva il vizio del gioco e delle donne. Lui in fabbrica non c’era mai, io avevo imparato a tenere la contabilità, mi occupavo degli operai. Lui arrivava solo per prendersi i soldi e per andare nei bordelli o a spenderseli al gioco e io invece a ruscare, a far andare avanti tutto. A casa, quando c’era, era ubriaco, mi aveva anche alzato le mani. Allora sono andata dai genitori di lui, ma mi hanno detto che me lo dovevo tenere. Ho fatto una vita d’inferno. Poi lui si è ammalato, è morto, e io con i soldi che avevo risparmiato di nascosto sono riuscita a comperarmi una casetta in Val di Susa, era costata poco, era umida e da aggiustare ma per me andava bene.
Vivere fuori Torino mi costava meno, avevo un orto, seminavo e raccoglievo le verdure, compravo pochissime cose nei negozi del paese, la casa era isolata ma non avevo paura, partivo a piedi pian piano una volta alla settimana e andavo a fare i rifornimenti.
Mi facevo i fatti miei, ero molto riservata. Era venuto un signore del paese ad aiutarmi nei lavori più pesanti poi si figuri che questo qua mi ha chiesto di vivere insieme a lui, dicendomi che a una certa età se si viveva in due era più facile e vantaggioso, anche economicamente. Io gli ho detto che stavo bene da sola e di togliersi dalla testa certe idee. Gli ho dato quello che gli aspettava e lui non si è fatto più vedere.
Mi dice che non ha voluto avere figli da suo marito, e oggi l’unica parente a cui è affezionata è la nipote che le dà anche un aiuto, perché lei ha di pensione 900 mila lire mensili e ogni mese deve pagarne 400 mila d’affitto. Si esprime ancora in lire, nonostante non esistano più da tempo, perchè degli “euri” non ha mai capito niente.
Si muove con destrezza nella sua casa, che ha riorganizzato in relazione alla vecchiaia e alla sua vulnerabile condizione fisica. Noto dei segni sul muro, mi dice che ogni tre anni deve farsi abbassare i mobiletti e le mensole perché la sua schiena peggiora, lei rimpicciolisce diventando sempre più curva.
Mi invita a vedere la casa, mi accompagna sul balcone per farmi notare il giro di spaccio in strada: Vede quella piola, ormai è il ritrovo di tutti i delinquenti del quartiere, bianchi o neri, non ha importanza, di gente cattiva ce n’è di ogni razza.
Le chiedo come si trova nel quartiere: Bene, mi conoscono tutti. Ho persino il parrucchiere di fiducia che mi viene a prendere e mi accompagna nel suo negozio. Poi c’è la verduriera del mercato che mi porta ogni settimana la spesa a casa e si ferma a chiacchierare, mi ha già anche portato il gelato. Anche il panettiere e il lattaio mi mettono la spesa nell’ascensore se non hanno tempo per salire. Io sono servita come una signora. Una volta sono caduta in casa, ero lontana dal telefono, mi ha soccorso proprio il lattaio che quel giorno era salito per lasciarmi il latte sul pianerottolo e mi ha sentita chiedere aiuto. Ho sempre avuto i miei negozianti di fiducia, non sono mai andata nei supermercati, e ora che sono vecchia mi ricompensano così. Mi faccio da mangiare da sola, cerco di non sprecare niente, è un buon quartiere dove è facile fare economia.
La sera si prepara la zuppa con il latte, per risparmiare. Le medicine sono molto care, ma il suo medico cerca di darle quelle meno costose. Poi mi chiede se voglio vedere le fotografie di com’era una volta il borgo San Salvario.
Prende dalla credenza una scatola di latta e ne tira fuori foto e vecchie cartoline: via Madama Cristina com’era 40 anni fa. Le guardiamo insieme, mi parla dei sui amici, quasi tutti già morti. C’è anche qualche foto della sua famiglia: Sono figlia unica, ho sempre desiderato avere una sorella, magari ci si fa compagnia. La volta che sono caduta e non riuscivo a rialzarmi mi sono molto spaventata. Anche se in una casa di riposo mi sentirei più sicura e protetta, il prezzo da pagare è che morirei ogni giorno dentro, prima ancora della mia ora.
Mi rendo conto di avere difficoltà a parlare della sua morte, non mi vengono le parole, è un tema così misterioso, ce ne allontaniamo sempre e al massimo lo affrontiamo come un fatto sanitario: si muore negli ospedali, nelle strutture, si muore lontano, in un altrove che reso asettico ci sembra più governabile.
Aurelia invece vuole morire qui, e alla sua morte ci pensa, riesce a starle di fronte, a non fuggire via, è serena e mi sorprende, mi fa da specchio delle mie fragilità.
Quasi per farmi un favore mi chiede quali aiuti potrei darle e dopo avermi ascoltato attentamente mi chiede: Ma davvero il Municipio fa tutte queste cose per noi vecchi? Ma le fa perché abbiamo pagato le tasse?
Mi congeda scrivendosi il mio numero sul calendario accanto al mio cognome e mi conferma che se ha bisogno mi chiamerà.
Scendo le scale di casa sua con mille domande: che cos’è che ci fa percepire di essere in una situazione di bisogno? Aurelia ritiene di avere tutto ciò che le serve, affronta ogni giorno la sua vecchiaia, ha una rete intorno che “quando cade” la sostiene e interviene, non chiede di più.
Arrivo in ufficio, prendo i messaggi telefonici e trovo una chiamata della signora Aurelia alle ore 16,30, appena dieci minuti dopo che ci siamo salutate.
Guardo in borsa per verificare di non aver dimenticato l’agenda o il cellulare a casa sua, ma non ho lasciato nulla. La richiamo.
Mi scusi, non mi giudichi male, volevo dirle ancora una cosa. Mi ha dedicato del tempo e mi è piaciuta la sua visita. Mi devo togliere questo peso dallo stomaco, dirle la verità. Io non sono vedova. Mi sono separata. Le ho detto che mio marito era morto invece non è così. Quando sono andata dai suoi genitori e ho detto che lui se ne doveva andare, che così non si poteva continuare, loro mi hanno risposto che dovevo portare pazienza. Allora non era come adesso, allora una donna doveva stare con suo marito in ogni caso, anche se era una bestia o un criminale, altrimenti era il disonore per la famiglia. Ma io avevo paura a stare con un uomo così, allora mi sono comprata una pistola, in regola, con la scusa della guerra. Poi sono andata al Commissariato a denunciare mio marito per maltrattamenti, quella volta me ne aveva date davvero tante, ho detto al maresciallo che sarei andata via e che se mio marito fosse venuto a cercarmi gli avrei sparato con la rivoltella perché tanto io non avevo nulla da perdere. I carabinieri tante volte mi avevano detto che dovevo tornare a casa, ma quella volta nessuno più ha detto niente. È stato un matrimonio difficile. Non vorrei farle perdere tempo con i miei ricordi, ma mi sono tolta un peso.
L’ascolto ancora a lungo: mi racconta che cosa significava ai suoi tempi separarsi, come l’ha vissuta lei, quali sensi di colpa ha dovuto attraversare, quanto tempo ha impiegato a camminare di nuovo a testa alta per strada fregandosene degli sguardi di parenti e vicini pronti a dare giudizi, perché la colpa di un matrimonio fallito ricadeva sempre e solo sulla donna.
Si commuove nel ricordare il suo passato, e poi ridendo con la voce più sollevata aggiunge: Non ho più notizie di lui da tempo, magari nel frattempo è morto e io sono davvero vedova, grazie dottoressa, mi farò sentire, sa per avere un’ assistente domiciliare, una di quelle persone fidate che manda il Comune.
E io, chiudendo questa telefonata, penso che davvero ogni cosa possa ancora accadere.