Covid e lavoro in Svizzera
di Paolo Barcella
Illustrazioni di Marilena Nardi
Il 17 maggio scorso la popolazione svizzera avrebbe dovuto presentarsi alle urne, per votare un’iniziativa popolare contro la Libera Circolazione con l’Unione Europea, voluta dall’Unione Democratica di Centro, il partito della destra xenofoba. In caso di vittoria, si sarebbero create le condizioni per porre dei limiti agli ingressi di lavoratori europei, in continuità con l’esito di un’analogo referendum, votato nel 2014. Fra i cantoni che in quell’occasione avevano accolto con maggiore vigore le limitazioni, c’era il Canton Ticino che, negli ultimi venti anni, ha visto moltiplicarsi il numero di lavoratori frontalieri* e notificati. Questi ultimi costituiscono una forma estrema di precariato internazionale: si tratta di cittadini europei che possono essere impiegati da aziende elvetiche per un massimo di novanta giorni all’anno, senza necessità di un permesso di lavoro, ma con una semplice notifica inviata all’ufficio competente.
In parallelo, nello stesso cantone, è montata l’ostilità nei confronti dei lavoratori pendolari italiani, disprezzati e stigmatizzati da larghi strati di popolazione, tanto da essere rappresentati come ratti in alcuni manifesti elettorali dell’UDC e della Lega dei Ticinesi. Tuttavia, quando l’8 di marzo il decreto del governo italiano minacciò di chiudere la regione Lombardia, il Canton Ticino reagì all’ipotesi con un certo allarmismo. In Italia, la curva di diffusione del Covid-19 aveva già raggiunto valori importanti e in Ticino si registrava un numero crescente di casi, ma sul desiderio di tenere fuori i lombardi prevalse la consapevolezza che non sarebbe stato facile sostituire più di 65.000 lavoratori frontalieri, che in buona parte operano nel terziario e costituiscono il 20% del personale ospedaliero.
Insomma, quando la possibilità di chiudere le frontiere si fece concreta, in Ticino la si percepì come una minaccia. E quando la mobilità per ragioni di lavoro fu accordata dal governo italiano ai frontalieri, non pochi ticinesi tirarono un sospiro di sollievo. Nei momenti più critici aumentarono i controlli in frontiera e ai valichi le code di lavoratori si fecero chilometriche, tanto che molti frontalieri furono costretti a rimanere a casa. In quel momento l’edilizia ticinese, che si regge in buona parte sul frontalierato, si fermò. Nel frattempo le organizzazioni padronali e i sindacati mediavano per ottenere sussidi e garantire chiusure temporanee per i settori più colpiti. Nei mesi successivi l’epidemia dilagò drammaticamente nel cantone e si diffuse, in misura variabile, in tutta la Confederazione.
Anche la votazione xenofoba ne ha risentito ed è stata rinviata al 27 settembre. Chissà se quel giorno qualche sostenitore dell’iniziativa si ricorderà di avere tirato il fiato quando venne chiarito che le frontiere lombarde sarebbero rimaste aperte a tutela degli interessi ticinesi.
Questa non è la sola contraddizione sulla Svizzera e gli svizzeri emersa come conseguenza del Covid-19. Tra la prima settimana di marzo e i primi di aprile, infatti, in un paese di 8 milioni e 600 mila abitanti soltanto, si è arrivati a registrare più di 1400 contagi al giorno, con una mortalità che, tuttavia, risultava percentualmente inferiore a quella registrata in Italia. In un primo tempo le istituzioni elvetiche faticarono molto a decidere interventi drastici. Alla preoccupazione per le ricadute economiche, si aggiungeva la difficoltà di imporre obblighi e limitazioni alla libertà individuale delle persone in un paese che si è plasmato sulle retoriche della responsabilità personale e della libertà individuale. Il 17 marzo si giunse alla chiusura di attività commerciali come bar, ristoranti e parrucchieri, mentre le scuole e università passarono al lavoro a distanza, insieme a molte altre realtà produttive che potevano permetterselo. La mobilità lungo le frontiere venne limitata e controllata, anche attraverso l’impiego dell’esercito. Le attività industriali non subirono però blocchi, così come l’edilizia, fatta eccezione per il Canton Ticino. La grande distribuzione segnò un forte incremento dell’attività, con un’impennata delle richieste di personale da assumere a tempo determinato. Pochi e limitati si mantennero i vincoli di spostamento individuale, blande le misure di precauzione imposte nello spazio pubblico. Agli obblighi venivano preferiti gli inviti all’assunzione di responsabilità e all’azione guidata dal buon senso. L’esito di tutto ciò è stato una notevole libertà di movimento, con risultati temperati da una serie di fattori strutturali, come la dimensione e la forma degli spazi urbani, la popolosità, un’attitudine alla movida molto moderata nella maggioranza delle città, fatta eccezione per alcuni festival che sono stati sospesi per il 2020. Tra metà maggio e i primi di giugno si è quindi andati verso la generale riapertura delle attività commerciali, anche di quelle dove il distanziamento fisico appare davvero difficile, come le sale dedicate alla prostituzione che, nella Confederazione Elvetica, sono legali attività commerciali. Le limitazioni agli assembramenti nei luoghi pubblici si sono formalmente mantenute, ma con tetti massimi di presenza decisamente alti.
*Per saperne di più: Paolo Barcella, I frontalieri in Europa. Un quadro storico (Biblion Edizioni, Milano, 2019)
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