Coniare una parola nuova: preattacco

di Robin Morgan
Illustrazione di Liza Donnelly
Traduzione di Margherita Giacobino

Ricordate quando si pensava che il gender gap fosse una moda passeggera?

Di recente è stato fatto uno studio straordinario, un sondaggio del 2016 (i dati hanno bisogno di tempo per stagionare) su 137.456 studenti del primo anno in 184 college e università degli Stati Uniti. L’UCLA Higher Education Research Institute ha riscontrato “il più grande divario di genere in termini di orientamenti politici: Il 41,1% delle donne, un massimo storico, si è identificato come liberale o di estrema sinistra, rispetto al 28,9% degli uomini”.

In parallelo, un sondaggio della Knight Foundation ha chiesto a 3.014 studenti universitari: “Cosa pensi sia più importante, una società diversa e inclusiva o proteggere il diritto alla libertà di espressione?” Gli studenti maschi hanno preferito la protezione della libertà di parola con un decisivo 61% (forse perché è così spesso utilizzata per difendere la pornografia violenta?), mentre il 64% delle studenti ha preferito una società diversa e inclusiva. I dati riflettono le tendenze dell’elettorato in generale, e gli studiosi si stanno muovendo in sincronia. Il Pew Research Center ha fornito al New York Times i dati di un sondaggio che dimostra che nella totalità delle elettrici e degli elettori, tra democratici e repubblicani si evidenzia un divario di genere di 18 punti. Il Rutgers Center for American Women in Politics ha notato che mentre “significative differenze di genere nell’identificazione dei partiti sono state evidenti fin dai primi anni ’80, il crescente impegno politico delle donne sta ora avendo un grande impatto sull’ordine sociale, in modi non ancora riconosciuti.”

Nel documento del 2018 “The Suffragist Peace”, firmato da Joslyn Barnhart dell’Università della California Santa Barbara e da un gruppo di ricerca, si osservava che “le preferenze per il conflitto o la cooperazione sono sistematicamente diverse per gli uomini e per le donne. Ad ogni gradino dell’escalation, le donne preferiscono le soluzioni più pacifiche. Sono meno inclini ad approvare l’uso della forza e la stipula di accordi internazionali penalizzanti per la controparte, e più inclini ad approvare concessioni sostanziali per preservare la pace”. In merito alla crescente incorporazione delle donne nel processo decisionale politico nel corso dell’ultimo secolo e al suo effetto reale sul comportamento conflittuale delle nazioni, Barnhart e il suo team hanno  rilevato che “il crescente affrancamento delle donne, e non semplicemente l’elevarsi dei livelli della democrazia stessa, è la causa della pace democratica”. Una conclusione che lascia senza fiato.

Naturalmente, stiamo sempre parlando di medie, non di distinzioni categoriche, ad esempio, alcuni singoli uomini avranno meno preferenza per l’uso della forza di alcune singole donne, e viceversa. E non si tratta semplicisticamente di dire che gli uomini sono cattivi, le donne buone, né di calvinistiche affermazioni sulla mancanza di libero arbitrio. Infatti, quando sulle donne sono stati proiettati stereotipi di pacifismo passivo0, le femministe hanno risposto (ormai da secoli) rifiutandoli come condiscendenti, e affermando che non si sarebbe potuto cogliere alcuna reale differenza tra i sessi fino a quando non ci fossero stati studi scientifici liberi da attribuzione di valori. Ma finalmente stiamo cominciando ad averli, questi studi, e altri cambiamenti consequenziali stanno emergendo man mano che il punto di vista delle donne diventa più coinvolto (e visibile) nella politica. Questa è scienza, non stereotipi.

 

Dennis Chong, uno scienziato politico della University of Southern California, nota che le donne ottengono punteggi più alti nei valori caratterizzati da cura, equità, benevolenza e protezione del benessere degli altri, il che riflette una maggiore empatia e una preferenza per le relazioni sociali cooperative. Nei dibattiti odierni sulla libertà di parola e sulla “cultura della cancellazione”, queste differenze sociali, psicologiche e di valore sono in linea con i sondaggi che mostrano le donne più propense degli uomini a considerare i discorsi di odio come una forma di violenza piuttosto che di espressione. Steven Pinker, professore di psicologia ad Harvard, scrive che la generalizzazione empirica più fondamentale sulla violenza è che è principalmente commessa dagli uomini. Pinker aggiunge che le nuove tendenze più orientate al femminile potrebbero consistere in “una società che si allontana dalle culture dell’onore maschile, quello che approva la ritorsione violenta per gli insulti, l’uso della punizione fisica per indurire i maschi e la venerazione della gloria marziale”.

In altre parole, questa ricerca è straordinariamente utile, perché significa che le persone e le società possono cambiare. Storicamente, gli uomini tendono a essere più ossessionati dallo status e dal dominio e più disposti a correre rischi nella competizione per ottenerli, mentre le donne sono più propense a dare valore alla salute e alla sicurezza, e a ridurre il conflitto. La spiegazione evolutiva, come molti hanno proposto, è che per gran parte della preistoria e della storia umana, gli uomini vincenti e i gruppi maschili hanno potuto procurarsi numerose compagne e prole con mezzi violenti, mentre per le donne la riproduzione era una questione di investimento del tempo necessario – la gravidanza e l’allattamento richiedono entrambi tempo – e senza una madre o senza donne, i bambini non sopravvivevano. Il che è in sintonia con i risultati di studiose e studiosi che individuano le differenze chiave tra uomini e donne nell’enfasi che le donne danno alla prevenzione del danno, in particolare per coloro che sono meno attrezzati per proteggersi.

Le donne sono competitive quanto gli uomini, nota Joyce Benenson del dipartimento di biologia evolutiva di Harvard, ma lo sono in modo diverso. Fin dalla prima infanzia, le ragazze competono usando strategie che riducono al minimo il rischio di ritorsioni e impongono l’uguaglianza all’interno della comunità femminile. In un documento del novembre 2021, Benenson afferma che “le femmine rispondono con una maggiore autoprotezione rispetto ai maschi. Le femmine presentano risposte immunitarie più forti a molti agenti patogeni; sperimentano una soglia più bassa per la percezione del dolore (e una minore tolleranza ad esso); si svegliano più frequentemente di notte; esprimono maggiore preoccupazione per gli stimoli fisicamente pericolosi; esercitano maggiori sforzi per evitare i conflitti sociali, mostrano uno stile di personalità più concentrato sul pericolo, reagiscono alle minacce con maggiore paura, disgusto e tristezza; e sviluppano più condizioni cliniche causate dalla minaccia rispetto ai maschi”. Questo può portare a un diverso tipo di reazione al conflitto. Per esempio, le femmine mostrano una maggiore risposta al rilevamento di stimoli sensoriali, trovano la punizione più avversativa, dimostrano un maggiore controllo dello sforzo e provano un’empatia più profonda.

Un’altra notizia incoraggiante è che tra i giovani, femmine e maschi, si riscontra una maggiore tendenza ad autoidentificarsi nel femminismo. I sondaggi condotti da American National Election Studies hanno scoperto che in un periodo di 24 anni tra il 1992 e il 2016, i giovani di ambo i sessi tra i 18 e i 24 anni hanno mostrato un aumento nell’identificazione femminista, che è raddoppiata passando dal 21% al 42%.

Ora, ricordiamo gli sviluppi di cui sopra (aumento sostenuto del divario di genere, più ricerca differenziata per sesso sui conflitti, più demarcazione dell’età) mentre diamo un’occhiata a un quarto punto: l’emergenza di studi non sessisti sugli affari internazionali. Sapevate che gli accordi di pace durano enormemente più a lungo se le donne sono coinvolte nei negoziati? Se le donne firmano un accordo, il 70% di tali patti dura 20 anni o più; altrimenti, solo il 25% dura così a lungo. Una delle ragioni è che le donne inseriscono nell’accordo soluzioni per molti più problemi a livello di comunità, e si tratta delle questioni che spesso portano a maggiori conflitti. In altre parole, diamoci meno arie per favore, gente, e facciamo più attenzione ai dettagli.

Valerie Hudson, docente alla Texas A&M, ha studiato per molti anni la relazione tra genere e sicurezza internazionale. Ha scritto numerosi articoli che dimostrano come la violenza contro le donne e le ragazze abbia un impatto diretto sui livelli nazionali di pace e stabilità, e qualche anno fa lei e il suo gruppo hanno scritto un libro sull’argomento, intitolato Sex and World Peace. A questo è seguito un altro libro intitolato The Hillary Doctrine, che esamina i modi in cui Hillary Rodham Clinton, quando era Segretaria di Stato sotto il presidente Obama, ha istituito misure specifiche per adattare e promuovere la politica sottesa a questo tema, dal livello micro al macro. Insieme, i due libri costituiscono una potente argomentazione.

Per esempio: “Abbiamo trovato nei test empirici aggregati convenzionali che il miglior predittore della pacificità di uno stato non è il suo livello di ricchezza, o il suo livello di democrazia, né se è islamico o no. Il miglior predittore di pace di uno stato è il suo livello di violenza contro le donne“.

E un’altra citazione: “Questi non sono gli unici risultati che sottolineano il legame tra la sicurezza delle donne e la sicurezza degli stati. Gli studi hanno scoperto che più grande è il divario tra uomini e donne nella società, più è probabile che una nazione sia coinvolta in conflitti intra- e inter-statali, che sia la prima a usare la forza in un conflitto e che ricorra a livelli più alti di violenza. I giorni in cui si poteva sostenere che la situazione delle donne non ha nulla a che fare con questioni di sicurezza nazionale o internazionale sono, francamente, finiti. I risultati empirici che dimostrano il contrario sono troppo numerosi e troppo solidi“.

Hudson e il suo team scoprono che il trattamento delle donne informa l’interazione umana a tutti i livelli della società, e supportano le loro scoperte con analisi dettagliate e mappe a colori, sfruttando un’immensa quantità di dati. Richiamano l’attenzione sulle discrepanze tra le leggi nazionali che proteggono le donne e l’applicazione di quelle leggi, e notano l’effetto negativo sulla sicurezza dello stato di sproporzioni abnormi a favore dei maschi, della pratica della poligamia, delle realtà inique nel diritto di famiglia, e di altre aggressioni basate sul genere. La loro ricerca sfida le definizioni convenzionali di sicurezza e democrazia e mostra che il diverso trattamento tra i generi informa il vero scontro di civiltà.

Questo significa che per curare le ferite della violenza, sia in famiglia sia negli organi politici, è necessario agire dall’alto come dal basso. Entrambi i libri sottolineano l’importanza dell’R2P, la sentenza delle Nazioni Unite secondo cui gli stati nazionali hanno la responsabilità di proteggere gli stati nazionali vulnerabili, e dell’R2PW, che sta per responsabilità di proteggere le donne. (Nessuna delle due politiche viene messa in pratica.) Attenzione, queste non sono misure istituite in modo protezionistico. Piuttosto, affrontano realtà di un sessismo così profondamente radicato, così antico e pervasivo che è quasi impossibile tracciarne i contorni in qualsiasi campo o sfondo, perché in effetti il sessismo è il campo, è lo sfondo.

A livello internazionale le femministe dicono da anni che è la famiglia il microcosmo dello Stato, non l’operaio, come vorrebbe Marx. Nella famiglia impariamo come la vita viene vissuta ed espressa, cosa ci si aspetta da noi, come soddisfare tali aspettative. Non è una coincidenza che tutte le società patriarcali, patrilineari e patrifocali – la maggior parte delle società attualmente sulla terra – abbiano rituali specifici per segnare (di solito con un atto cruento, reale o metaforico, una forma di mutilazione genitale) il passaggio della responsabilità verso un bambino dalla madre al padre, allo zio o a una figura maschile della famiglia. Questo è vero soprattutto per i bambini maschi, ma assume forme simili per le femmine che, in tali iniziazioni, imparano la docilità, l’obbedienza e una sedicente celebrazione della loro femminilità. Dopodiché, il patriarcato ha vita facile. Questo processo, contrabbandato come relativismo culturale, è stato sfidato nella politica estera degli Stati Uniti solo una volta, sotto Hillary Rodham Clinton con la Dottrina Hillary. All’inizio del suo mandato, ha detto: “La sottomissione delle donne è una minaccia alla sicurezza comune del nostro mondo e alla sicurezza nazionale del nostro paese”. John Kerry, che le è succeduto come Segretario di Stato, ha abbandonato quell’approccio.

Dato il contrattacco mondiale che stiamo vivendo attualmente, con l’ascesa di regimi autocratici e persino totalitari all’estero (e i tentativi anche in casa nostra!), si può pensare che questo sia un contrattacco al femminismo, che ha fatto da levatrice alla voce e ai poteri emergenti di metà dell’umanità. Ma io sostengo che non si tratta di un contrattacco – termine che non è altro che un modo elaborato per incolpare la vittima. Credo che ci sia un altro nome, profondamente rivelatore, e credo che possiamo osare coniare questa parola.

La parola è preattacco. Il preattacco ha sempre preceduto il contrattacco nel corso della storia, nel pauroso, paranoico e frenetico tentativo di evitare qualsiasi insurrezione degli oppressi, comprese quelle immaginarie. Il preattacco in questo caso consiste nella realizzazione conscia o subconscia da parte di molti uomini (e dico molti e non tutti per evitare la generalizzazione), che se le donne hanno voce e potere ciò significherà un cambiamento fin qui inimmaginabile della nostra specie. Guardate i decenni di preattacco che hanno portato alla guerra civile americana, andate a vedere la propaganda di preattacco di Goebbels prima dell’ascesa del nazismo, ascoltate i suprematisti bianchi che marciano a Charlottesville portando torce e cantando “voi non ci rimpiazzerete”. Il preattacco non ha bisogno di una minaccia reale per sentirsi minacciato. È il terrorizzato avvertimento di coloro che sono al potere e che sospettano la fragilità del loro potere, è un marito violento che mostra i pugni alla moglie dicendo: “Non provocarmi”.

Il patriarcato è radicato da molto tempo. I suoi mezzi sono violenti. Sa che i mezzi delle donne, come la storia dimostra e le ultime statistiche sul gender gap confermano, tendono alla non violenza. Allora perché non assaltare e minacciare, brandire spade o cannoni, cyberhack o veleni o disastri nucleari? Se le minacce fanno tornare le donne di corsa al loro posto, ehi, fratello, ce l’abbiamo fatta!

Ma se il preattacco proviene dalle proiezioni del senso di paura maschile, una paura così onnicomprensiva che acceca gli uomini verso ciò che le donne in realtà vogliono, che non è affatto la vendetta, come rispondiamo a questa paura? Non dovrebbe spaventarci, perché sappiamo che, comunque, il contrattacco è inevitabile. Può perfino prepararci meglio a combatterlo.

Non ho risposte facili e immediate su come affrontare il preattacco (dopo tutto, ho appena inventato la parola stessa). Ma ho la forte sensazione che questa sia la strada giusta, una strada che inizia con il dare un nome al problema; e poi, fatto questo, capire come rispondere. Da un lato, ci sono modelli come il popolo Bantu, Gandhi, il movimento per i diritti civili, gli stili di certi popoli indigeni; la maggior parte sono stati non violenti, basati su principi, e hanno preso in prestito in modo interessante gli stili delle donne. Tutti hanno funzionato, ma solo fino a un certo punto, e per un po’. Ora, con il pianeta in pericolo, il tempo stringe, non ce ne resta molto.

Ma questo non vale solo per noi, riguarda le nostre strategie, ma anche quelle del patriarcato.

Tutto quel che so finora è che come inizio abbiamo quattro sviluppi recenti, interconnessi e che fanno ben sperare: le ultime statistiche sul divario di genere, un numero crescente e senza precedenti di persone che affermano quel divario, un differenziale giovanile che lo afferma anch’esso, e dati emergenti sul crescente impatto politico delle donne sulla pace. Insieme, queste cose potrebbero significare “evoluzione” per la nostra specie.

E poi c’è questa parola nuova, preattacco. Scriviamola qui, usiamola, condividiamola, diffondiamola, e vediamo se prende il volo!

 

 

*Preattacco è la traduzione di forelash, che richiama backlash (contrattacco), parola resa nota dal libro di Susan Faludi, Backlash. The Undeclared War Against American Women (1991 ed. it. 1992). NdT

L’articolo Coining a Brand-New Word: Forelash è stato pubblicato il 31 gennaio 2022 sul blog di Robin Morgan

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