Appunti pandemici dal Portogallo
di Maria Nadotti
Sentite, lettrici, quanto suona foneticamente simile a ‘polemici’ quel pandemici con cui ho siglato questa mia piccola cronaca da Lisbona, Portogallo? Sì, invece di raccontarvi cose che già sapete dai mezzi di disinformazione di massa, così pronti a fare classifiche, a dire chi ha fatto meglio e chi peggio, a stordire, impaurire, colpevolizzare, vorrei saltare a piè pari a qualcosa che nel corso degli ultimi tre mesi qui è diventato lampante, ma che nessuno osa chiamare con il suo nome.
Vi parlerò dunque non di come la pandemia sia stata affrontata, ma della vistosa scacchiera sociale che il Covid-19 ha portato nitidamente alla luce. C’era già, va da sé, ma si poteva far finta di non vederla. La vista, come sappiamo, è un senso selettivo: crea di continuo un fuori campo. Sembra quasi che, per vedere questo o quello, sia necessario non vedere tutto il resto. E, a monte del vedere, c’è il guardare, atto deliberato che, ahimè, spesso coincide con una misteriosa forma di cecità o di stupore: si guarda e si vede quello che si ha già in testa oppure ci si disorienta per eccesso di incredulità. L’effetto è lo stesso: l’oggetto dello sguardo si sfoca e sparisce e noi, come struzzi, ripieghiamo il collo sul già noto. Cucù e la cosa brutta non c’è più.
Qual è la cosa brutta che qui è saltata all’occhio di tutti e che, oltre a non sparire, sta ridisegnando la mappa della città attraverso una serie di micro e macro s-confinamenti, attraverso un vero e proprio spostamento fisico delle sue soglie sociali, etniche, razziali?
Sintetizzando molto, potremmo dire che la cosa brutta è perlopiù nera, povera, senza un tetto decente (o proprio niente) sulla testa e che, finora, se ne stava confinata in zone-ghetto tipo il Bairro Jamaica di Seixal al di là del Tago, che al confronto il Corviale, le vele di Scampia, lo Zen di Palermo o Quarto Oggiaro sembrano ridenti quartierini residenziali, o in alberghi – si fa per dire – del centro di Lisbona, come l’Aykibom Hostel di Rua Morais Soares o il Turkish Style Hostel di Avenida Almirante Reis 59, frequentati da migranti irregolari e stranieri richiedenti protezione internazionale.
La cosa ancor più brutta è che quella cosa brutta si è trasformata rapidamente (per favore, non chiedetevi perché) in focolaio di infezione da Covid-19: un vero e proprio attentato alla salute e alla sicurezza pubbliche, un po’ come i neri statunitensi, che si potrebbe bombardarli con il napalm visto che tanto sono un corpo estraneo, meno che cittadini, non del tutto americani, ridondanti, spendibili, da eliminare prima che contagino la parte ‘buona’ della società e ne mettano in forse i beni, i consumi, lo stile di vita.
Fin qui niente di nuovo, direte voi: i ricchi sono ricchi e si preservano; i poveri sono poveri e non hanno modo di tutelarsi; i ricchi sono di solito bianchi, preferibilmente maschi, occidentali; i poveri sono tutto il resto, colorati, vecchi, donne (non tutte), bambini, diversamente abili. Guai a metterli troppo vicini tra loro se non a termine, con funzioni e tempi studiati con calcolata prudenza. Figuriamocela così: i ricchi stanno dove decidono di stare, e per tutto il tempo che vogliono, in virtù del loro potere d’acquisto, gli altri fanno la spola tra i propri dormitori e i luoghi dove ‘servono’ e dove appunto sono messi temporaneamente al servizio (servitù e badanza di varia natura: rider & altri dannati della terra).
E invece qualcosa di inedito c’è. Qui il Covid-19, che certamente finirà per obliterare definitivamente i poveri, ha per ora fatto sparire i ricchi, fuggiti altrove o rintanati nelle loro accessoriate e superservite case/bunker. E ha fatto evaporare quella periferia della ricchezza che è il turismo di massa. E così, come nei film di fantapolitica tipo 1997 Fuga da New York o L’esercito delle 12 scimmie, il mondo di sotto è percolato nel mondo di sopra, il fuori è diventato dentro e i confini sono saltati. In mezzo la pressione arteriosa del trasporto pubblico, abbandonato agli have-not, come gli americani chiamano i morti di fame, gli scarti del sistema.
Intere zone che da alcuni anni erano off-limits, alla lettera interdette, tenute in ostaggio da turisti, immobiliaristi e gentrificatori di varia provenienza e scuola, sono tornate disponibili, un po’ come il porto di Savona per i delfini, le strade di Casale Monferrato per i cervi o Bergamo Alta per i cinghiali. Il trionfo, che potrebbe rivelarsi non così effimero, del fuori posto.
Il Rossio, cuore storico della città bassa, spettrale, evacuato, senza ombra di commerci, trasformato timidamente in piazza africana. Il fianco meridionale del Teatro Nacional D. Maria II, quello che affaccia sul Rossio, convertito in riparo per senzatetto.
L’Alameda, cuore storico della città alta, area di incontro e socialità perlopiù bianca, svuotata dei suoi frequentatori abituali e tramutata in spartiacque: a sud e a est il popolo dei brasiliani, i cittadini di serie B; a nord e a ovest i portoghesi bianchi, la borghesia postsalazariana, un popolo kantoriano mummificato da un lieve velo di polvere o canfora.
Prima del Covid-19 le soglie erano blindate. Avenida Guerra Junqueiro, la signorile strada residenziale che dall’Alameda va verso nord-ovest, era zona di struscio per fanciulle in fiore, le ‘junqueirinhe’, e i loro coetanei di sesso maschile (simili, per intendersi, a quelli che in altra epoca chiamavamo i sanbabilini). Belle e curate aiuole di agapanti bianchi e blu su entrambi i lati della via, vetrine a loro modo sontuose. Territorio occidentale.
Da qualche settimana le incursioni o scorrerie sono all’ordine del giorno e vanno in una sola direzione. Anche qui il ginocchio sul collo comincia a pesare, ma per ora ci si accontenta di spaccare qualche vetro d’auto nella notte e di decapitare gli agapanti in fiore, altezzoso simbolo di agio, cura, superfluità. Rabbia e/o invidia sociale in attesa di darsi compiuta forma.
(Lisbona, 5 giugno 2020)