Donne maltrattate, scappate di casa!

Appello di Marisa Guarneri

di Pat Carra
Illustrazione di Catartica

 

Durante la quarantena, le donne maltrattate sono chiuse tra le mura domestiche. Facciamo il punto con Marisa Guarneri, tra le fondatrici e presidente onoraria di Cadmi, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, il primo centro antiviolenza italiano aperto nel 1986. Cadmi fa parte dell’Associazione nazionale D.i.Re, donne in rete contro la violenza.

Come stanno affrontando l’emergenza i centri antiviolenza?

Fanno quello che hanno fatto sempre: accolgono le donne, se le donne si fanno sentire. Con il vincolo della segretezza e dell’anonimato non puoi chiamarle tu, peggioreresti la situazione; puoi dare suggerimenti, come gli avvisi “chiama quando vai fare la spesa, quando porti fuori il cane…”.

Ci si chiede come fanno a uscire di casa, a sfuggire al controllo dei maltrattanti.

Dipende da che tipo di relazione c’è: se gli uomini hanno la percezione che appena girano l’angolo spariscono, non le fanno neanche uscire. Ma se invece c’è una quotidianità tipo “vado a fare la spesa… faccio fare il giro al bambino”, può darsi che ci riesca. Quelle che sono state abituate a cercare di non scatenare le liti, perché va sempre a finire male per loro, faranno in modo di tenere la situazione più tranquilla possibile.

Cosa fanno le istituzioni?

Una cosa che mi ha colpito moltissimo è che in nessuna dichiarazione, in nessun discorso fatto da sindaci o governatori o presidente della repubblica, nessuno abbia messo in priorità questa situazione delle donne, che sono doppiamente recluse. Ne hanno accennato in parlamento in una question time, ma nessun risultato, solo qualche spot. Mi fa incazzare: non c’è la priorità delle donne maltrattate, la diventa solo quando fa notizia e in questo momento fanno notizia i morti, quindi… Ci voleva da subito una presa di posizione più netta, più forte.

Proviamo a immaginare cosa potrebbero fare nel futuro immediato.

Se fossi nei panni del sindaco di Milano, mi metterei d’accordo con la prefettura e i corpi di polizia, andrei a spulciare le denunce, specialmente quelle ripetute: ogni posto di polizia ne ha e non saranno certo diecimila. Occorre avere sotto gli occhi la mappa delle situazione. In genere, le donne che vengono ammazzate sono quelle che hanno denunciato di più. Andrei a fare un salto nelle case, la polizia o qualcuno che abbia il ruolo per poterlo fare, anche un’assistente sociale. Se la donna vuole, la porterei via. Da subito, adesso, invece di stare a menarsela sul perché e il per come. Lo sappiamo tutte benissimo com’è la situazione. Più vai avanti e più si fa tesa.

Non ti sembrerebbe una forzatura della volontà delle donne il fatto di mandare le forze dell’ordine a casa? Cambierebbe l’approccio, la pratica fin qui seguita dai centri antiviolenza.

Questa è un’emergenza. È vero che devono scegliere sempre e prima di tutto le donne, ma come fanno in questo momento? Cambierei approccio solo in questo particolare frangente. Deve arrivare la segnalazione di priorità! Invece chi lo sta dicendo che le donne sono in pericolo? Solo i centri antiviolenza.

Questo punto di vista è tuo o è condiviso con Cadmi e la rete D.i.Re?

In questo momento è mio, la rete dei centri non penso che possa dire ufficialmente una cosa del genere. Ma quasi quasi… Direi alle donne “Venite fuori di casa come potete, mettetevi davanti a Palazzo Marino, entrate e state lì finché non vi vengono a prendere per portarvi altrove”. Non credo che in questo momento una metodologia dell’accoglienza possa valere e bastare nello stesso modo di sempre. Farei un passo in più.

Uscite alla spicciolata a una a una e bussate alla porta di Palazzo Marino. E a quella di Regione Lombardia?

Certo che no, in Regione Lombardia non vi aprono neanche la porta!
È un appello che farei alle donne e al Comune di Milano: venite fuori perché qui c’è rapporto con le istituzioni un po’ diverso. Le donne dei centri e degli ambiti di aiuto poi si muovono. Parlo di Milano perché la conosco. I centri antiviolenza potrebbero riuscire a dare una spinta e dire “Venite fuori e vi veniamo a prendere” e anche avvisare il Comune “Noi daremo questo messaggio”. Potrebbe essere una presa di posizione meno blanda, perché in questa emergenza c’è troppo la menata di stare alle regole. Va bene stare alle regole, ma morta per morta, esco e non torno più! Questa regola di stare in casa che tu mi dai, a me peggiora la vita.

Una sorta di disobbedienza civile. Il tuo è un appello per un cambio di strategia.

“Scappa di casa e non tornare” può essere il messaggio dei centri antiviolenza, che sono più che autorizzati a inviarlo, che devono rischiare. Il sistema della sicurezza che abbiamo introiettato in questa emergenza, è una morte. Come se in nome di una sicurezza superiore fosse saltata la libertà di dire “Se quello che mi dici non è giusto, io non lo faccio”, che è stato sempre il modo di contestare le leggi non condivise. Un tale sistema delle regole sta diventando ridicolo: con tutto quello che sta venendo a galla in Regione Lombardia, a cominciare dalle morti nelle RSA – che sotto sotto è un “chi se ne frega degli anziani” – come fai a dargli credito? Ci sono terribili effetti collaterali, ci sono le donne che rischiano la vita.
Alle istituzioni ripeto “Entrate nelle case che sapete in pericolo, ma affrettatevi, prima di tutto mentalmente”.

*L’articolo è stato ripreso da il manifesto e Corriere della sera/27esima ora

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