Intervista a Francesca Milazzo
di Paolo Barcella
Illustrazioni di Isia Osuchowska
Negli Stati Uniti le armi da fuoco sono da sempre presenti nelle case dei cittadini bianchi e rappresentano storicamente un fattore di distinzione rispetto agli afroamericani. Il diritto a disporre delle armi è stato uno dei fondamenti del suprematismo bianco, tanto durante la schiavitù quanto durante la lunga stagione in cui negli stati del Sud venne imposto il Jim Crow System, l’apartheid statunitense. Oggi le armi hanno acquisito una connotazione iper-ideologica e una valenza politica polarizzante: quando se ne parla, non si discute tanto di quegli specifici oggetti di morte, quanto di una visione del mondo e delle relazioni tra individui e società, di un modo di intendere la responsabilità individuale, dell’idea stessa di uomo. Anzi, di uomo e di donna. Perché anche le donne si organizzano in comunità armate. Ne parliamo con Francesca Milazzo, laureata in storia all’Università di Pisa con una tesi dedicata a Women&Guns, la prima rivista femminile dedicata alle armi.
Lauren Boebert, neoeletta repubblicana al Congresso per il Colorado, ha realizzato nel 2020 uno spot per spiegare perché porterà con sé la sua pistola Glock durante le attività congressuali a Washington. Nel video dialoga con le donne e gli uomini del Colorado, ossia con quella che lei definisce “America reale”, in contrapposizione al mondo liberal e urbano. Boebert costruisce una sorta di monumento alle armi, attraverso una retorica e un’estetica della femminilità armata. Nella tua ricerca hai fornito elementi per ricostruire il percorso di elaborazione di questo fenomeno. Quando inizia? Quali associazioni sono coinvolte?
Le armi da fuoco sono un tema divisivo, da tanti punti di vista: culturale, politico, giuridico. Il Secondo Emendamento alla Costituzione (…the right to keep and bear arms…) è oggetto di dispute teoriche: è un diritto del popolo ad armarsi, se organizzato in una milizia? È un diritto individuale? E qui si apre una crepa quasi insanabile tra chi sostiene la necessità di controlli e chi vede nell’ipotesi di una regolamentazione delle armi una grave violazione di un diritto di cittadinanza, se non la negazione dei valori dei Padri fondatori. Ci sono associazioni e lobby come la NRA (National Rifle Association) o la SAF (Second Amendment Foundation) il cui scopo è promuovere l’uso delle armi da parte di privati cittadini e cittadine. Col tempo queste associazioni, tramite una certa narrazione storica della Rivoluzione e dell’espansione a Ovest, hanno contribuito a creare un senso di appartenenza che attrae le persone bianche e conservatrici lontane dagli ambienti metropolitani e multietnici. Nella mia ricerca ho cercato di mettere a fuoco come alcune correnti generalmente definite “post-femministe” abbiano fatto di questa retorica, e della fascinazione per le armi, il fulcro di una possibile autodeterminazione femminile. L’idealizzazione della guerra d’indipendenza e della frontiera ha sempre affascinato i sostenitori dei gun rights, che si sentono diretti discendenti di quelle figure eroiche. Questo vale anche per le donne. Ne è un esempio Boebert, che durante l’assalto a Capitol Hill ha scritto su Twitter “Today is 1776” (anche lei è stata poi bloccata dai social media e accusata di aver incoraggiato l’insurrezione). È soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso che le donne dell’America bianca e conservatrice trovano una loro risposta al femminismo critico, radicale e interrazziale: le donne sanno difendersi, sanno sparare, non vogliono più essere vittime. Il problema non sono le istituzioni, il patriarcato, il maschilismo o il capitalismo. Se vogliono, le donne possono liberarsi, dimostrando di avere pari abilità e pari volontà di difendersi con le armi. La questione dunque non è sistemica, ma si risolve unicamente sul piano individuale.
Mentre presentano le armi come strumenti di parità, queste donne descrivono un mondo assediato da maschi predatori, dei quali è bene non fidarsi mai e che devono essere pronte a uccidere in caso di necessità. Quali sono le caratteristiche del “femminile armato” e del “femminismo” incarnato da Boebert e da riviste come Women&Guns?
Il primo numero di Women&Guns, la rivista femminile dedicata alle armi, esce nel 1989. Sono anni in cui imprese come Smith&Wesson hanno bisogno di allargare il target di acquirenti di armi, e la NRA cerca di presentarsi con un volto più rassicurante e meno miliziano. Lobby e industria propongono un modello “femminile armato” di successo, fatto di donne coraggiose e patriote, ma che rispecchiano anche valori tradizionali: la donna armata protegge la casa e la famiglia. In un primo momento W&G aveva una prospettiva meno reazionaria, più sensibile al tema del sessismo, più disponibile a fare qualche discorso sul patriarcato, parlando per esempio di violenza domestica. Ma visto che questa apertura creava tensioni e polemiche nel loro ambiente politico conservatore, hanno smesso, dando spazio solo all’immaginario del femminile armato, con donne che sparano per difendersi dalle intrusioni e che si mostrano in pose armate-sexy, atlete del poligono, cowgirls che partecipano a rievocazioni storiche del Far West. La cosa sorprendente è che, strategie pubblicitarie a parte, questa rappresentazione è stata rafforzata da frange di femminismo che rivendicano un soggetto femminile capace di prendere iniziative individuali, mettere in atto l’aggressività per la difesa della patria, della famiglia o di se stesse. Ciò ha fatto infuriare femministe storiche come Betty Friedan, che ha definito il modello di emancipazione armata “un’orribile e oscena perversione del femminismo”. L’esaltazione della donna autosufficiente, che non ha bisogno della protezione di un uomo, delle forze dell’ordine o dello stato, presuppone che non sia importante la messa in discussione del sistema patriarcale: quello che conta è la capacità di difendersi e uccidere, quando si presenti una minaccia.
Del tuo lavoro mi ha colpito la questione legata all’ambito domestico e alla maternità. L’arma pare un complemento necessario alla figura materna. Anche la risposta alla violenza domestica consiste principalmente nell’armarsi? Su quali immaginari si fonda questo “maternalismo armato”?
Mentre leggevo Women&Guns, mi rendevo conto sempre più che proponeva un “femminile domestico” accessoriato di fondina e Colt. Intravedevo alcuni tentativi di scardinamento degli stereotipi: un senso di autonomia (o di onnipotenza) generato dall’arma, la rivendicazione di una soggettività aggressiva e non più passiva. Ma, pensavo, è proprio questo il punto. Basta una pistola per risolvere l’asimmetria di genere? È sufficiente questo per contrastare le sopraffazioni fisiche o psicologiche? In W&G la violenza domestica viene tematizzata quasi sempre come un’invasione della proprietà e della sfera privata da parte di estranei malintenzionati (bad guys), oppure di ex-compagni che hanno perso lo statuto di “interni”. Come se la realtà della violenza domestica non fosse fatta di maltrattamenti da parte di padri, partner, fratelli soffocanti, quindi di soggetti interni alla propria cerchia. Occorre armarsi e cavarsela da sole contro l’invasione di chi ci è estraneo, perché le forze dell’ordine non sono a disposizione. Altrimenti, è anche colpa delle donne se finiscono male. Questo è il messaggio che mi è sembrato di cogliere, l’immaginario entro cui si inserisce la narrazione di Women&Guns.
Poi c’è un gioco di parallelismi: il maschio invasore sta alle donne armate, protettrici del proprio nido, come il potere federale sta alla libertà di armarsi dei singoli cittadini.