di Paolo Barcella
Illustrazione di Marilena Nardi
Dopo un mese dalla prima intervista chiamiamo Paolo Barcella, che vive a Redona, quartiere bergamasco a tre chilometri da Alzano Lombardo, e insegna Storia contemporanea e storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo.
Desideriamo sapere come sta. Ci dice che sta bene, ma in un attimo il discorso cambia e scorre come un fiume in piena la storia di due amici di Nembro, una coppia anziana: lei è gravemente depressa e minaccia il suicidio, lui racconta di lei senza capacitarsi di quello che sta succedendo. A partire da qui, chiediamo a Paolo una riflessione sulla sofferenza psichica che sta venendo a galla nel suo territorio.
Un articolo firmato da Enrico Marro per Il Sole 24 Ore presentava qualche giorno fa uno studio statunitense secondo il quale nel prossimo decennio saranno centinaia di migliaia, a livello globale, le “morti per disperazione”, provocate in ultima istanza da quel che ha scatenato il Covid-19. Nella Bergamasca, ormai a tutti nota come uno degli epicentri mondiali del contagio, c’è da disperarsi più che da altre parti: alla “fase 2” si sta già accompagnando una sorta di “fase 2 del dramma”, ossia l’intensificarsi, per migliaia di persone, di una sofferenza psicologica che, se nella maggioranza dei casi si manifesta in crisi d’ansia e disturbi dell’umore, nelle situazioni più complicate comporta gravi stati depressivi. Come spiegano gli specialisti, in alcuni casi si tratta di persone che già vivevano una condizione di fragilità, altre volte sono soggetti che, fino a tre mesi fa, si consideravano solidi. La sofferenza di molti si affianca all’incertezza e alla confusione di tutti, in un momento in cui il desiderio diffuso sarebbe poter ripartire “alla grande”, ritornare a vivere la propria vita, là dove tuttavia è sempre più chiaro che ciò non accadrà presto. Qualcuno vorrebbe rimuovere, o già rimuove, il dramma vissuto, brandendo noti slogan testosteronici – dal più urbano “Bergamo non si ferma!” al dialettale “Mòla mìa!” – che, mentre affermano la legittima propensione a resistere alla tragedia, rischiano di lasciare in circolo le tante scorie mortuarie prodotte da questo tempo infausto. La vera sfida consisterà invece nell’essere all’altezza di superare la catastrofe metabolizzando quelle scorie, rispettando i tempi e la necessità del lutto. La mancata elaborazione dei drammi vissuti è del resto proprio il terreno più fertile per l’emersione di una sofferenza psichica fuori controllo.
Sono diverse le realtà che si stanno muovendo localmente per contribuire all’elaborazione del lutto nella sua dimensione collettiva. Di questo ho scritto qualche settimana fa: in alcuni paesi della provincia una generazione intera è stata decimata, lasciando un vuoto profondo, a tanti livelli, e qualcuno se ne dovrà fare carico. Il principale quotidiano locale, L’Eco di Bergamo, ha creato una pagina memoriale con i volti e le storie di chi se ne è andato, sviluppando una sorta di “torre dei caduti” in formato digitale. Una rete di associazioni e di persone di cui sono parte sta riflettendo su iniziative da intraprendere nei comuni più colpiti. L’obiettivo primo è trovare luoghi e strumenti utili per avviare un lavoro con i bambini e gli adolescenti, affinché possano riscoprire ed elaborare le storie degli anziani che hanno perso. In questo modo, li si vuole aiutare a dare un nome all’accaduto e a raccogliere quell’eredità che consente di trovare un posto alla morte, riconoscendole lo spazio che ha nella vita. Il dramma delle morti “a distanza” di questi mesi, peraltro, ha avuto un effetto spiazzante. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una tendenza all’espulsione della morte dall’orizzonte dei vivi, concretizzata nella medicalizzazione ostinata, nell’allontanamento dei morenti dalle case e dagli occhi, soprattutto da quelli dei minorenni. L’assurda situazione a cui il Covid-19 ci ha costretto ha imposto una radicalizzazione disumanizzante di questo processo di separazione dai cari defunti, stimolando una riflessione collettiva, un pensiero sull’importanza che ha, per gli essere umani, fare i conti con le spoglie di chi se ne va.
Psicologi, psichiatri e psicoanalisti si sono attivati e stanno prendendo la parola attraverso i media locali. Tuttavia, questo territorio – soprattutto nelle valli e nelle zone della provincia profonda – è particolarmente ostile alle pratiche di cura e di accompagnamento della sofferenza mentale. Occorre evitare generalizzazioni e stereotipi, ovviamente, così come riconoscere in partenza che atteggiamenti analoghi sono condivisi e diffusi anche altrove. Tuttavia, per leggere il nostro presente, penso valga la pena sottolineare come le culture e le culture politiche qui diffuse generino in larghi strati di popolazione una tendenza alla stigmatizzazione del disagio psicologico e del lavoro di chi se ne occupa. La pestilenziale retorica del “Mòla mìa!” è il riflesso di una società in cui prevale un approccio virile e pragmatico a problemi di ogni ordine e grado, compresi quelli che di tutto han bisogno tranne che di un approccio pragmatico e non riflessivo. Certo, molti riconoscono utile in astratto il lavoro di cura della sofferenza mentale, quando riguarda gli altri e non tocca in prima persona, semplicemente perché tutti possono ammettere debolezza e inadeguatezza negli altri. Ma quando tocca in prima persona, cambia tutto, perché in troppi – tanto più se sono uomini, perché in tal caso sentono di dover aderire al modello “virile” di mascolinità egemonico – pensano di essere più forti dei mali che li assalgono, o quanto meno sono convinti di dover dimostrare di esserlo. E, quando non ce la fanno più, se ricorrono a una terapia, subentra la vergogna, la necessità di “non dire niente a nessuno”. Molti temono di rivolgersi a uno psicologo perché hanno paura diventi un dato noto nelle loro cerchie: costoro vivono il ricorso a una terapia come se fosse una certificazione di impotenza. Peraltro, l’ostilità nei confronti della psicoterapia – e ancor più della psicoanalisi – è piaga diffusa anche in settori di popolazione con una formazione culturale medio-alta, poiché è dominante l’idea che si debba comunque bastare a se stessi. E così finiscono col prevalere da un lato le somatizzazioni, le ipocondrie e le medicalizzazioni dei sintomi, dall’altro le indigeribili tendenze alla lamentazione e agli sfoghi, continui e autoreferenziali: tutto pur di non assumersi davvero la responsabilità del proprio limite. Perciò, nonostante la situazione di malessere in alcune comunità sia tanto forte da avere spinto comuni e consorzi ad aprire sportelli di ascolto, questi sportelli non vengono sfruttati. Ho contatti con operatori di Nembro e Alzano che hanno creduto nell’organizzazione di spazi di primo ascolto perché conoscevano persone in situazioni di fragilità e, ora, vedono che quelle stesse persone non chiamano. Negli stessi comuni, in troppi sono convinti che, per superare le crisi, basteranno le “goccine” giuste per stabilizzare l’umore. In tal senso, non penso si stia aprendo alcuna stagione di risveglio della consapevolezza in Bergamasca: si è invece già aperta una stagione che richiede un urgente lavoro politico atto a stimolare quel risveglio.