di Fabrizio Tonello
C’è l’onnipresente street food thailandese. Ci sono le bancarelle di paccottiglia. Ci sono i tuk-tuk che cercano clienti. Soprattutto ci sono cinesi, giapponesi, francesi, tedeschi e italiani che vogliono farsi i selfie sul ponte. Già, il ponte. Un ponte ferroviario non particolarmente interessante se non fosse che il fiume sotto si chiama Kwai. E quindi tutti pensano di ripercorrere i passi degli sfortunati prigionieri di guerra inglesi, australiani e americani che costruirono la “ferrovia della morte” tra Bangkok e Rangoon nel 1942-43, quando i giapponesi intendevano attaccare l’India attraverso la Birmania. Avevano già conquistato le Filippine, Singapore, centinaia di isole del Pacifico, perché non l’India? Tra il dicembre 1942 e l’ottobre 1943, 60.00 prigionieri di guerra alleati e 177.000 lavoratori malesi, birmani e Tamil costruirono per giapponesi la strategicamente importante ferrovia attraverso la giungla.
Siamo a Kanchanaburi, in Thailandia, e la storia della ferrovia è vera, così come sono vere le spaventose condizioni di lavoro forzato nei campi creati per la sua costruzione, dove morirono decine di migliaia di sventurati: 12.500 tra i prigionieri alleati e ben 85.000, la metà del totale, tra i lavoratori schiavi. Il resto è frutto dello strapotere di Hollywood, che nel 1957 invase gli schermi di tutto il mondo con The Bridge on The River Kwai, regista David Lean, protagonisti Alec Guinness e William Holden, sette Oscar e incassi a palate. Fu il film a trasformare un fiume che non si chiamava Kwai e un ponte che non era quello giusto in un monumento allo spirito di resistenza dei soldati inglesi e, incidentalmente, in un’attrazione turistica che porta centinaia di migliaia di visitatori a Kanchanaburi ogni anno.
Cominciamo dal principio: il romanzo su cui si basa il film era opera di Pierre Boulle, un bizzarro personaggio che aveva lavorato nelle piantagioni di gomma malesi, poi aveva fatto l’agente segreto per il generale De Gaulle in Asia, era stato arrestato dal governo francese collaborazionista del maresciallo Pétain e aveva passato due anni e mezzo nelle carceri di quest’ultimo prima di scoprirsi una vocazione di scrittore.
Boulle non aveva talento letterario ma in due occasioni mostrò di avere idee originali: una prima volta con Il ponte sul fiume Kwai e una seconda volta con Il pianeta delle scimmie, nel 1963. In entrambi i casi il tema era il potere: chi comanda, chi ubbidisce, chi si ribella. Hollywood trasformò i due romanzi in kolossal che lo resero ricco e famoso.
Nel caso del ponte, l’idea era quella di un personaggio fuori dal comune, un colonnello britannico fanatico della disciplina, che fa sua l’idea di costruire il manufatto voluto dai giapponesi e organizza i suoi soldati prigionieri per realizzarlo. Il colonnello Nicholson interpretato da Alec Guinness era uno stranissimo miscuglio di volontà ferrea, ossessione per il lavoro ben fatto e completa follia. Nel film, infatti, Nicholson convince i giapponesi a lasciar fare a lui e ai suoi ufficiali, ben più capaci dal punto di vista ingegneristico.
Il ponte viene quindi costruito, di fatto aiutando il nemico in un’opera strategica essenziale per il Giappone, e Nicholson muore tentando invano di impedire la sua distruzione da parte dei commandos inglesi arrivati fin lì attraverso centinaia di chilometri di giungla. Le forze del Bene trionfano dopo due ore abbondanti di suspense.
Come ben si sa, a Hollywood la realtà viene considerata solo un fastidioso intralcio che rischia di rovinare una bella storia e quindi David Lean fece alcuni piccoli aggiustamenti.
Primo: il fiume non si chiamava Kwai bensì Maeklong: “Khwae noi”, piccolo fiume, era il nome di un affluente e, anglicizzato in Kwai suonava meglio.
Secondo: i giapponesi sapevano perfettamente come costruire dei ponti ferroviari di legno, usando solo materiali locali e il manuale dell’ingegnere dell’esercito americano, il famoso Merriman & Wiggin. Si chiamavano trestle bridges e funzionavano perfettamente, tanto è vero che ne costruirono non uno ma 688 (seicentoottantotto) lungo la ferrovia. Nel romanzo di Boulle e nel film c’è un chiaro disprezzo verso i giapponesi, mostrati non solo come dei sadici (quali effettivamente erano) ma anche come dei primitivi incapaci di comprendere le tecnologie occidentali, cosa ovviamente falsa. Inoltre, il film dà l’impressione che quello sul Maeklong fosse l’unico, decisivo, elemento per completare la ferrovia ma invece era solo un minuscolo tassello di un’opera lunga ben 415 chilometri.
Terzo: l’idea di mandare dei sabotatori a distruggere il ponte in territorio nemico è spettacolare ma per chi abbia letto anche un solo Bignami di storia della seconda guerra mondiale, palesemente assurda: gli Alleati potevano bombardare Tokyo e Berlino, quindi erano in grado di attaccare efficacemente dall’aria ogni ponte in Birmania e Thailandia, come effettivamente fecero. Il ponte sul Maeklong fu distrutto nel 1945 da ripetute missioni dell’aviazione americana con base in India. La ferrovia era stata completata nel 1943 e aveva funzionato per quasi due anni prima della resa del Giappone.
Quarto, il ponte di Kananchaburi era stato distrutto nel giugno 1945, poi venne riparato dopo la guerra ma le tensioni tra Thailandia e l’amministrazione coloniale inglese della Birmania (oggi Myanmar) condussero alla chiusura della linea. Il ponte rimase e, dopo il successo del film, divenne “il” ponte sul fiume Kwai per puro caso: al contrario delle altre centinaia di ponti in legno questo era di cemento e acciaio, era in piedi, la città era relativamente vicina a Bangkok, c’erano centinaia di migliaia di australiani e neozelandesi che avevano partecipato alla guerra in Asia e avevano ascoltato i racconti dei commilitoni sulla ferrovia della morte desiderosi di visitare i luoghi.
Al governo thailandese non rimase altra scelta che ribattezzare “Kwai” il fiume Maeklong. Le bancarelle si moltiplicarono e oggi i selfie fanno il resto.