di Ferdinando Fasce
Vignetta di Liza Donnelly
Donald Trump sta per sloggiare dalla Casa Bianca. Ma non se ne vanno le fake news, suo marchio di fabbrica. Per capire da dove vengono torniamo a Edward Bernays, pioniere delle public relations (PR), che nel 1928 scrisse il libro Propaganda*. Laureato a Cornell, Bernays apparteneva a una famiglia dell’agiata e colta borghesia ebraica viennese trapiantata a fine Ottocento negli Stati Uniti. Il padre era un ricco commerciante di granaglie. La madre Anna era una sorella di Sigmund Freud, che a sua volta aveva sposato una sorella del padre di Bernays, Martha. Tanto che, celiava il giovane Edward, la sensibilità per l’inconscio gli scorreva nelle vene. Di sicuro vi scorreva la capacità di inventarsi la professione di PR, ritagliandola fra il mondo dei giornali, da cui proveniva e quello della pubblicità. I PR tenevano a chiarire che non volevano vendere prodotti mediante l’acquisto esplicito di spazi per annunci su una rivista. No, loro lavoravano dietro le quinte, persuadendo questo o quel giornale a parlare, possibilmente bene, di un brand, una persona, un’opinione, dei quali si facevano paladini dietro lauto compenso, costruendo “situazioni capaci di conferire a una causa la forza dell’evidenza”.
Qualche anno prima il giornalista Walter Lippmann aveva lanciato un apocalittico grido di dolore sul destino di un mondo nel quale gli individui erano prigionieri di simboli, immagini e stereotipi largamente irrazionali e inconsci, veicolati dai media. Bernays rovesciava la prospettiva. Là dove Lippmann vedeva abissi, il nipote di Freud vedeva opportunità per la sua professione, che si metteva al servizio della società aiutando i clienti – sulla base di ricerche di mercato e indagini d’opinione – a capire gli orientamenti del pubblico, a migliorare la propria immagine e promuovere una migliore comprensione delle ragioni e degli impulsi, consci e soprattutto inconsci, di tutti.
“La conscia e intelligente manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse”, scriveva Bernays, “è un elemento importante della società democratica”, il mezzo mediante il quale gli “uomini intelligenti possono combattere per fini produttivi e contribuire a portare ordine in mezzo al caos”. La parola “propaganda” era osteggiata negli Stati Uniti perché associata al regime comunista sovietico e a quello fascista. Bernays sosteneva, invece, che la concorrenza fra propagande diverse, resa possibile dalla democrazia di mercato, avrebbe evitato l’indottrinamento tipico di quei regimi. Quest’argomentazione non persuase i principali osservatori, in testa il New York Times, che criticarono aspramente Bernays, senza però bloccarne l’irresistibile ascesa. L’anno dopo, nel 1929, Edward mostrò che cosa intendeva per “creazione di situazioni capaci di conferire a una causa la forza dell’evidenza”. Al soldo dell’American Tobacco, per allargare il consumo di sigarette presso il pubblico femminile, fece sfilare durante la parata della domenica di Pasqua a New York una decina di ragazze molto belle su e giù per Fifth Avenue. Avevano il compito di soffermarsi presso chiese e ristoranti di fama in modo che fosse ben visibile la sigaretta accesa che tenevano in mano. Erano nati gli “eventi”. Qualche anno dopo, pare che i libri di Bernays fossero letti avidamente da Joseph Goebbels. Di certo nel mezzo secolo successivo il suo carnet di clienti si riempì dei più bei nomi del business statunitense, inclusa la United Fruit, colosso della banana Chiquita. Bernays difese strenuamente gli interessi della UF in Guatemala con una serie di campagne sui giornali, accusando il governo guatelmateco di Jacobo Arbenz – reo di aver requisito alcuni terreni inutilizzati di proprietà dell’impresa – addirittura di cospirazione comunista, in un crescendo di delirio e disinformazione che spianò la strada al colpo di stato col quale la CIA nel 1954 rovesciò quel governo. Più tardi, in risposta alle formidabili sollevazioni diffuse degli anni Sessanta, i tempi diventavano maturi per roba molto più forte di quella di Bernays. Dismessi definitivamente i guanti bianchi, con una virata sempre più marcatamente di destra e razzista, arrivava sulla scena la macchina del rumore (e delle menzogne) repubblicana: Nixon, i telepredicatori, Reagan, Fox News, i fratelli Koch, Dick Cheney, Karl Rove, i cospirazionisti del web, The Donald… una lunga storia che purtroppo continua.
*Edward Bernays Propaganda (Shake edizioni 2020)