Il sistema della pandemia

Intervista a Francesca Nava

di Paolo Barcella
Vignette di Pat Carra

Giornalista e documentarista freelance per Rai 3 Presadiretta, TPI e altre testate, Francesca Nava ha seguito da vicino l’estendersi della pandemia nella Bergamasca, sua terra d’origine. Ne ha tratto varie inchieste e un libro Il Focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale (Laterza) – che appaiono tanto più importanti ora di fronte a una nuova impennata dei casi, ospedali sotto pressione, nuove misure di contenimento. Con cura e intelligenza, Nava mette a fuoco le questioni essenziali per affrontare un’epidemia che rischia di essere devastante per il modo in cui intercetta i limiti strutturali del nostro sistema di produzione e di consumo, e la nostra concezione di sanità e salute pubblica. Come ci racconta in questa intervista, le sfide della pandemia vanno ben oltre la scoperta di un vaccino.

La Lombardia si percepisce come la punta avanzata dell’Italia, il suo cuore produttivo, che dispone di un sistema sanitario all’avanguardia. Certamente nella regione la sanità c’è e la gente viene curata, ma il Covid ha rivelato contraddizioni e cortocircuiti di questo sistema. Quali sono i fattori che secondo te hanno pesato maggiormente sul collasso primaverile?

L’eccellenza sanitaria lombarda esiste, è quella ospedaliera. Se una persona ha bisogno di cure oncologiche particolarmente innovative, operazioni di alta tecnologia, viene in Lombardia. Tuttavia questo modello ospedale-centrico, fortemente segnato da una logica privata di alta specializzazione tecnologica e di medicina puramente curativa, ha mostrato durante la pandemia tutti i suoi limiti. Nella nostra regione esiste un sistema sanitario misto, in cui le strutture del privato convenzionato ricevono circa il 40% della spesa sanitaria corrente. Ma la sanità privata non è affatto interessata a settori meno redditizi, con un modesto margine di profitto a fronte di ingenti investimenti in attrezzature e operatori, come i dipartimenti di prevenzione, di emergenza e i pronto soccorsi.
Il privato guadagna in base al numero dei malati e al tipo di malattie, e se la prevenzione sottrae malati e malattie, diminuisce il profitto. Curare conviene molto di più che prevenire e il privato investe in ciò che rende. Questo avviene addirittura per gli esami: le strutture private scelgono di accreditarsi per alcuni esami e non per altri che sono più costosi.
La Regione Lombardia ha applicato la logica del privato anche alla struttura pubblica, riducendo ai minimi termini tutti i servizi di medicina territoriale. Per questo non ha funzionato il sistema di allarme. I pronto soccorsi e gli ospedali lombardi sono diventati la prima e l’ultima trincea di cittadini privi di risposte e di punti di riferimento. Abbandonare la medicina di base, indebolire la prevenzione, non investire nell’assistenza domiciliare e non creare un coordinamento tra ospedale e territorio, tutto ciò ha contribuito al disastro a cui abbiamo assistito nella prima ondata pandemica e che ora si ripresenta. In Lombardia abbiamo avuto il 55% di mortalità nelle terapie intensive, a fronte di una media nazionale che va dal 25% al 40%, questo perché da noi moltissimi pazienti sono arrivati in ospedale in fin di vita. Se l’obiettivo è l’eccellenza ospedaliera è ovvio che il territorio viene depauperato e non fa più da filtro. Molti addetti ai lavori dicono da tempo che occorre cambiare la filosofia alla base di questo modello sanitario, partendo dai bisogni della collettività e non solo dell’individuo. Si deve lavorare affinché i pazienti non ci arrivino in terapia intensiva e vengano presi in carico prima, lontano dagli ospedali. Chi studia le epidemie sa che si combattono con una programmazione accurata e soprattutto con servizi di prevenzione. Ma la prevenzione – si sa – non crea consenso, non porta voti.

Alla luce del lavoro per il libro Il focolaio e delle tue inchieste recenti, quali pensi siano i margini per una riforma del sistema sanitario lombardo?

Il modello sanitario lombardo ruota intorno a una legge sperimentale del 2015, la cosiddetta riforma Maroni, in scadenza a fine anno. Una riforma che ha frammentato la sanità, dimezzato la prevenzione e indebolito la medicina del territorio, creando un sistema misto pubblico-privato, spesso sbilanciato a favore di quest’ultimo. La maggioranza che governa la Regione Lombardia ha dichiarato di voler revisionare questa legge, ma molti politici e sanitari pensano che andrebbe radicalmente modificata o meglio ancora sostituita.
A marzo alcuni medici dell’Ospedale di Bergamo Papa Giovanni XXIII – di fronte al collasso sanitario della prima ondata – hanno evidenziato alcune criticità e avanzato proposte di cambiamento in una lettera pubblicata sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine (Nejm), nella quale dicevano che “questa epidemia non è un fenomeno che riguarda soltanto la terapia intensiva, è una crisi umanitaria e di salute pubblica”.
In particolare nella lettera si sottolineava come “i sistemi sanitari occidentali siano stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care (un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care”.
In conclusione, scrivevano i medici bergamaschi, “questo disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali”. E proseguivano con una lista di azioni da intraprendere subito. Nulla è stato fatto da allora a oggi. Lo stesso gruppo di medici – per altro duramente criticati dalla direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di appartenenza – si è recentemente fatto promotore di un’altra lettera aperta alle istituzioni, con dettagliate proposte per riformare il servizio sanitario lombardo, con una particolare attenzione al territorio e alle cure primarie. In pratica, siamo di fronte all’ospedale che chiede interventi strutturali soprattutto al di fuori dell’ospedale. Un segnale emblematico, che va oltre l’emergenza pandemica. Quasi 800 operatori sanitari lombardi hanno sottoscritto questo documento: medici ospedalieri e di base, infermieri, pediatri di libera scelta, che hanno già avuto le prime interlocuzioni in Regione e in Commissione Sanità a Roma.
La necessità di una riforma dei sistemi sanitari basata sulle cure primarie e su un’assistenza socio-sanitaria di tipo integrato è anche la proposta della Campagna “2018 Primary Health Care: Now or Never” che presenterà in questi giorni il progetto “Verso il libro azzurro. Un manifesto aperto per la riforma delle Cure Primarie in Italia”. L’obiettivo  è innescare un processo collettivo e partecipato che porti alla trasformazione radicale dell’assistenza territoriale alla salute: ora o mai più! Una vera e propria chiamata a tutte le associazioni professionali e non, a stakeholder e persone che vogliono collaborare alla costruzione collettiva di una proposta per riformare le cure primarie in Italia. Il progetto nasce per essere condiviso e avvia un processo di educazione permanente, gettando le basi per la creazione di un lessico comune. Insomma, qualcosa si muove.

 

Nel tuo libro hai dedicato molte riflessioni alle responsabilità delle istituzioni regionali e nazionali nella catastrofe lombarda, quando hanno scelto di non chiudere – o di farlo solo parzialmente – attività produttive per paura di generare una catastrofe economica. Nelle ultime settimane il clima è di nuovo pesante e la tensione economia versus salute aumenta. Come agiranno le istituzioni e fino a che punto saranno in grado di assumersi responsabilità importanti? E soprattutto, chi saprà farlo?

Credo che la sfida che i governi di tutto il mondo debbono affrontare, quella di trovare un equilibrio tra salute ed economia, sia di portata epocale. È sotto gli occhi di tutti che nessun paese è in grado di farlo in questo momento. Il leitmotiv ripetuto in coro da chi governa e fugge da misure impopolari come il lockdown è che “dobbiamo imparare a convivere con questo virus”. Purtroppo, però, ci si dimentica che per convivere con un virus nuovo e altamente contagioso bisogna attrezzarsi per tempo, essere preparati. Fallire nel contenimento dei piccoli focolai, non creare strutture dedicate, non riuscire a isolare le persone infette, non programmare il fabbisogno di operatori sanitari e soprattutto non fare prevenzione ci catapulterà sempre in necessari lockdown più o meno estesi. A tal proposito l’economista Mariana Mazzucato ci offre qualche spunto interessante, al di là degli aspetti puramente sanitari, nel saggio appena pubblicato per Laterza dal titolo emblematico Non sprechiamo questa crisi.
Un po’ ovunque gli stati stanno iniettando stimoli nell’economia e al tempo stesso cercano disperatamente di rallentare la diffusione della malattia nel tentativo di salvare vite ed evitare il tracollo economico. E tuttavia c’è un problema, ci fa notare Mazzucato: l’intervento richiederebbe una struttura molto diversa rispetto a quella scelta dai governi. A partire dagli anni ’80, ai governi è stato chiesto di fare un passo indietro, lasciando che siano le imprese a imprimere la direzione e a creare ricchezza, e di intervenire solo per risolvere i problemi quando si presentano. Il risultato è che i governi non sempre sono adeguatamente preparati per affrontare crisi come quella del Covid-19. A ciò si aggiunge la mancanza di una rete di protezione per le persone che lavorano in società caratterizzate da diseguaglianze crescenti, specie quelle che, prive di tutele, operano nella gig economy, l’economia a chiamata.
Oggi ci si presenta l’occasione di approfittare di questa crisi per capire come fare capitalismo in modo diverso. Occorre ripensare il ruolo dello stato: anziché limitarsi a correggere i fallimenti del mercato, i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo plasmando e creando mercati che offrano una crescita sostenibile e inclusiva, oltre a garantire che le partnership con le imprese in cui confluiscono fondi pubblici siano guidate dall’interesse pubblico e non dal profitto.
Purtroppo, invece, nemmeno quel poco che potevamo fare è stato fatto e ora per rincorrere il consenso si rincorre il virus, e si prendono mezze e tardive misure di contenimento, spesso inefficaci se non addirittura controproducenti.
Forse la giusta chiave di lettura sull’approccio al Covid-19 ci viene dal direttore della rivista scientifica The Lancet, Richard Horton, che in un editoriale di fine settembre definisce il Covid non una pandemia, ma una sindemia, crasi delle parole sinergia, epidemia, pandemia, endemia. Il suo approccio approfondisce l’interazione sinergica tra due o più malattie e le situazioni sociali in cui le condizioni patologiche si realizzano, considerando non solo la classica definizione biomedica delle condizioni di comorbilità, ma anche l’interazione tra fattori genetici, ambientali e stile di vita.
La conseguenza più importante dell’inquadrare il Covid come una sindemia è quella di sottolineare le sue origini sociali. La vulnerabilità delle persone più fragili, come gli anziani e i lavoratori necessari che sono in genere mal pagati e hanno meno protezioni sociali, evidenzia una verità di cui prendere atto: non importa quanto sia efficace un trattamento o protettivo un vaccino, la ricerca di una soluzione puramente biomedica al Covid-19 non avrà successo. A meno che i governi non individuino politiche e programmi per colmare le profonde disparità sociali oggi esistenti, le nostre società non saranno mai realmente al sicuro.
Il Covid si instaura e prospera non solo per ragioni puramente sanitarie, ma perché trova condizioni che hanno origine nelle diseguaglianze dei sistemi politici, economici e sociali.
Se non curiamo le cause sistemiche, che comprendono anche l’istruzione, il lavoro, l’alloggio, il cibo e l’ambiente, non sconfiggeremo mai davvero la pandemia.

Vai alle inchieste di Francesca Nava per TPI The Post Internazionale

 

 

Le pagine di Erbacce contrassegnate da copyright sono protette e non riproducibili in nessun modo. Tutte le altre immagini e i testi di Erbacce sono rilasciati con licenza
Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported License
Licenza Creative Commons