Contro l’antisemitismo per la pace rivoluzionaria in Palestina
di Laura Marzi
Video di PDH Paroles D’Honneur
Che un incontro con una filosofa venga annullato perché potrebbe essere una minaccia per l’ordine pubblico è un fatto più unico che raro: è avvenuto a Parigi il 6 dicembre del 2023, quando il comune ha impedito che avvenisse il dialogo tra Judith Butler, filosofa statunitense, docente all’università di Berkeley, ebrea ed esponente del movimento Jewish Voice for Peace e due studiose francesi: Françoise Vergès, politologa femminista e Michèle Sibony, una delle autrici del libro Antiosinisme: une histoire juive (Syllepse, 2023).
L’appuntamento, grazie al sostegno e alla mobilitazione di diverse associazioni, si è infine tenuto il 3 marzo scorso davanti a un pubblico gremito e attento. Il tema dell’incontro, la strumentalizzazione dell’antisemitismo in chiave antimigratoria e antislamica, è stato immediatamente messo in risalto con il riferimento alla manifestazione del 12 novembre a Parigi contro l’antisemitismo, alla quale hanno partecipato esponenti dell’estrema destra, tra cui Marine Le Pen.
L’evento è organizzato come un vero e proprio dialogo, con domande puntuali da parte delle due moderatrici francesi. Sibony inaugura la conversazione con una precisazione che andrebbe insegnata a scuola e che invece è ancora sconosciuta ai più: la differenza tra antisionismo e antisemitismo. Butler chiarisce a tal proposito che molti ebrei sono antisionisti e lo sono stati in passato e precisa che fino agli anni ’70 del ‘900 l’accostamento tra i due concetti non esisteva. La sovrapposizione si è realizzata progressivamente fino ad arrivare al punto in cui siamo oggi in cui, cioè, l’unica forma di antisemitismo che viene nominata è proprio l’antisionismo.
Mentre l’antisemitismo è una forma di razzismo, l’antisionismo è una concezione politica che ha visto l’opposizione di molti ebrei ed ebree per svariate ragioni: culturali, spirituali, per l’idea che l’esistenza di uno stato sia nociva alla religione ebraica e infine oggi per l’evidenza che Israele è un esempio di nazionalismo radicale e di razzismo, fautore di una politica di sottomissione violenta del popolo palestinese. Continua poi illustrando come la posizione dei paesi europei quali la Francia o la Germania o dei media mainstream come il New York Times associno il concetto di antisionismo a una volontà di distruzione dello stato di Israele: per la filosofa si tratta di un’evidente manipolazione. L’antisionismo insiste sulla necessità di una ristrutturazione dello stato di Israele in chiave democratica, trasformazione che gioverebbe anche al popolo israeliano.
Butler insiste sul fatto che si tratta di una differenza che è sempre stata chiara alla popolazione ebraica, mentre ora il rischio è che la confusione e la malafede siano tali che gli ideali sionisti imperialisti e razzisti si approprino dell’esistenza di ogni singolo ebreo ed ebrea.
Il fatto che il popolo ebraico abbia sofferto l’olocausto non vuol dire che non possa far soffrire a sua volta, afferma la filosofa. Israele giustifica ogni suo atto di appropriazione e oppressione con la necessità di difendersi: quando sarà al sicuro? dopo aver eliminato o cacciato tutti i palestinesi? Gli israeliani sarebbero molto più al sicuro se vivessero in pace e con uguali diritti con i palestinesi.
Nel momento in cui le viene chiesto che tipo di futuro immagini per Israele, Butler esprime la sua indignazione rispetto all’ipotesi, rilanciata costantemente dai media statunitensi, che siano Biden o Netanyahu a dover avere un piano per il popolo palestinese, e ribadisce a più riprese come qualsiasi soluzione, da quella binazionale a quella di un unico stato in cui tutta la popolazione gode degli stessi diritti, senza discriminazioni di razza o religiose, può essere decisa solo dagli interessati dopo la decolonizzazione della Palestina.
Rispetto al 7 ottobre, Butler si esprime molto chiaramente: li definisce non atti terroristici, né antisemiti ma di resistenza armata. Sottolinea che si possono avere opinioni diverse su Hamas come partito politico, ma che è più onesto e storicamente corretto dire che è una forma di resistenza armata contro Israele. Ribadisce che non è stata a favore di quell’attacco, che l’ha molto angosciata, di averlo detto pubblicamente e di aver avuto problemi anche per questo.
Le violenze contro i palestinesi durano da decenni – continua Butler: il 7 ottobre è il risultato di una situazione di sottomissione contro un apparato statale violento.
Si può essere favorevoli o contrari alla resistenza armata o a Hamas, ma almeno bisogna nominarla come tale e da qui si può avere un dibattito su cosa pensiamo sia giusto. Il solo fatto di chiamarla resistenza armata fa sì che si venga immediatamente considerate a favore, ma non è detto: non significa che siamo dalla parte di Hamas, ma che ci rifiutiamo di condannare solo la violenza palestinese e non quella messa in atto da Israele.
Il 5 novembre lo stato di Israele ha fatto appello alle femministe chiedendo solidarietà per le donne israeliane stuprate. Qual è l’opinione di Butler sulla risposta da dare?
Io penso, dice Butler, che il femminismo e i movimenti trans e queer debbano mobilitarsi in favore della Palestina, in quanto oppressi dalla stessa oppressione, a partire dal fatto che il 70% delle vittime palestinesi sono donne e bambini. Quello che accade a Gaza è, anche, una forma di femminicidio. Le femministe palestinesi affermano che mettere fine alla violenza è una questione transnazionale di giustizia e solidarietà.