Confessioni di una smart worker anonima
Raccolte da Margherita Giacobino
Illustrazioni di Federico Zenoni
Ogni riferimento a persone e fatti reali è assolutamente vero.
“Mi sveglio con un grido. Ho fatto un sogno orribile. Ho sognato che il pc dell’ufficio, quello che mi è stato assegnato in qualità di funzionaria responsabile, si era acceso da solo e mi chiamava: dottoressa! dottoressa!
Nel sogno mi svegliavo di soprassalto e correvo in soggiorno. Sullo schermo era comparso il nuovo piano previsionale dell’Istituto per il trentennio 2021-2050, su cui leggevo con sgomento: I cambiamenti e le restrizioni al lavoro in ufficio potranno essere attenuati o diversamente modulati, ma proseguiranno nel Tempo.
Era scritto proprio così, il Tempo, quello senza fine né inizio. Come il contratto di lavoro a tempo indeterminato che ho firmato tanti anni fa con l’Istituto, e che per tanti più giovani di me è una specie di animale mitologico.
Restavo lì a guardare lo schermo con un senso di orrore: voleva dire che avrei lavorato da casa per il resto della mia vita?
Devo restare calma. È solo un sogno. Vado in bagno a lavarmi la faccia con acqua fredda e poi in cucina a farmi una camomilla.
È cominciato tutto con quel maledetto pc di servizio. Per mesi l’ho tenuto chiuso nell’armadio, poi mi sono decisa ad accenderlo ma solo per sbrigare la posta prima di rientrare dalle ferie, è vero che così perdevo un giorno di vacanza ma almeno al rientro non sarei affogata in un mare di mail. Poi è arrivato il giorno X, quando per l’allarme Covid ci hanno chiuso gli uffici e sul mio pc sono state caricate in fretta e furia le procedure per consentirmi di lavorare da casa.
In quel fine settimana il delirio. Tutti a telefonarsi e cercare di collegarsi dalla mattina presto fino a mezzanotte. Ce l’abbiamo fatta. Qualcuno meglio degli altri. Chi ha un pc di servizio (e io ce l’ho) e un collegamento via cavo (e io ho pure quello) c’è riuscito meglio, e quindi non può accampare scuse tipo: non ho potuto lavorare perché non c’era collegamento.
Del resto, io sono una responsabile.
Da allora siamo tutti in smart working. Peccato che lo smart working fosse stato pensato per quei lavoratori che per esigenze certificate (tipo bambini piccoli, genitori anziani ecc.) chiedevano di lavorare da casa in orari flessibili. Ovviamente, per loro, niente straordinario né buoni mensa.
Noi non abbiamo chiesto niente, siamo stati dichiarati smart worker d’ufficio. E di colpo le parole orario di lavoro hanno perso ogni significato. Niente straordinario né buoni mensa neanche per noi, va da sé.
Il che mi ha portato via una buona fetta di stipendio. Appena avrò un istante libero dal lavoro voglio proprio calcolare quanto guadagno di meno lavorando di più.
Però vuoi mettere, sul livello della responsabilità adesso sono quasi come una dirigente, sento che tra poco assegneranno anche a noi responsabili i piani di performance, una parola che mi fa pensare a quei discorsi che mi fa sempre Ezio, quando dice che il genere è performativo, adesso anche l’Istituto è performativo, il che per i dirigenti vuol dire che, svincolati dai contratti, guadagnano 15 volte di più facendo 15 volte di meno, per me in questo momento è il contrario ma non si sa mai.
Insomma adesso è notte fonda e io che ci sto a fare qui in cucina a preoccuparmi? Magari invece di una camomilla mi faccio un caffè e vado di là a lavorare un po’, che a quest’ora la connessione è una bellezza, e potrei anche telefonare a Ezio che di sicuro è sveglio, così mi sento meno sola.
Come mi mancano i colleghi. Anche quelli stronzi. Mi manca perfino il caffè della macchinetta, che fa venire il bruciore di stomaco.
Prima, fino a tre mesi fa, io la mattina andavo in ufficio col tram e nel percorso leggevo un libro, per i corridoi incontravo gente, quattro o cinque volte mi affacciavo nelle altre stanze e controllavo chi c’era, come procedeva il lavoro, nella pausa mensa facevo una passeggiata e all’uscita passando davanti ai cinema se un titolo mi ispirava magari decidevo lì per lì di vedermi un film. Era bello.
Poi per due mesi sono uscita solo il sabato a una certa ora, quando c’è meno coda, per fare la spesa. Macchina, supermercato, ritorno, salutino alla panettiera, salutino ai giornalaio, giusto per dire che sono viva. Tutti gli altri negozi erano chiusi. Adesso potrei muovermi di più, ma è difficile perdere certe abitudini.
Dopo due mesi ho scoperto che non ne avevo più voglia. Di uscire. Sento i bollettini dei morti e non ho reazioni, sono diventata cinica? Penso alle nuove esigenze assistenziali dell’Italia e me le sento tutte sulle spalle. Quando i vecchi amici mi telefonano taglio corto, gli faccio pesare che loro stanno lì a far niente mentre io lavoro. Cosa mi sta succedendo?
La mattina mi alzo, faccio meditazione davanti al sole che spunta, e meno male che almeno lui può farsi il suo giro durante il giorno, mi lavo, mi vesto, scendo a buttare l’immondizia e prendere il giornale – con il cellulare di servizio in tasca, perché vuoi mai che mi chiamino proprio in quei tre minuti cogliendomi in flagranza di abbandono del posto di lavoro, ovvero casa mia? Poi faccio colazione leggendo il giornale, mi trucco gli occhi e mi metto gli orecchini, che servono per entrare nella logica che non sei a casa, per non sentirti in colpa in modo devastante perché in effetti sei a casa, magari in pigiama, e anche se lavori non hai la dimensione del lavoro, così entri nel loop e non ne esci più, il senso del dovere ti tampina, l’ansia da prestazione ti incalza. Il lavoro ti ingoia, metti la sveglia per ricordarti di fare pausa, o di spegnere il gas sotto la pentola, ma poi quando suona rimandi, pensi ora vado, ora mi alzo, ed è così che ho fatto bruciare la pentola nuova.
Alle 8 e un quarto 8 e mezza sono già sulla chat whatsapp dell’ufficio, tutti lì con tazzine e brioche, chi ha i bambini chi la moglie o il marito, chi non ha il collegamento, io comunque ce l’ho e come sempre la mancata produzione di chi si gratta è compensata da chi ha il senso di responsabilità. Anzi, ipercompensata, perché ultimamente la produzione è aumentata.
E se la produzione è aumentata, e le spese diminuite perché il collegamento ce lo paghiamo noi e l’Istituto risparmia sui nostri stipendi, e su bollette, manutenzioni e pulizie, chi glielo fa fare di riportarci in ufficio?
Dal 3 giugno si riapre, certo, ma a ranghi ridotti e solo su appuntamento, già prima il pubblico non veniva quasi più perché entrare da noi era come entrare nel Castello di Kafka, che ormai io lo considero un collega, il pubblico andava al CAF e continuerà ad andarci, ai sindacati sta bene, così loro ci guadagnano perché i CAF prendono soldi dal pubblico e dal privato cittadino, e scommetto che chi ci lavora è pagato meno di un impiegato statale.
E del resto come faremmo a rientrare, se è previsto che ognuno di noi abbia a disposizione 20 metri quadri? Faranno ristrutturazioni invece di tamponi? Prevedo comunque rientri parziali, a rotazione, 1-2 giorni la settimana, al mese, chi lo sa. Mi inventerò un pretesto per andare in ufficio? Mi sentirò spersa, lì da sola, tra corridoi vuoti e saloni echeggianti?
Meno male che mi sono portata a casa il mio ficus beniamino!
Ezio non risponde, sono le 4,45 del mattino, sarà impegnato, lui di solito lavora fin verso le cinque poi si fa un sonno e riprende alle dieci.
E c’è la questione ergonomia. Per la sicurezza sul lavoro l’Istituto è obbligato a fornirti una postazione ergonomica, e ti fanno i corsi sulla postura, altezza sedia, angolo ginocchia e gomiti, poggiapiedi, schermo perpendicolare alle sorgenti luminose esterne… ma a casa se mi becco scoliosi, congiuntivite e tunnel carpale, la responsabilità è solo mia! Io però l’ho risolta brillantemente, mi piazzo sulla poltrona Poang dell’Ikea, con un paio di cuscini posizionati ad hoc e sulle ginocchia un’asse di compensato che ho trovato nello sgabuzzino, ci stanno giusto il pc, l’agenda, il cellulare dell’ufficio e quello personale, una bottiglietta di acqua e il telecomando. La tv la tengo sempre accesa sul canale 893, musica classica.
Oddio, una mail di Miranda, inviata all’una e 18 minuti. Maledizione a lei e alle sue manie da prima della classe.
È Ezio che ha cominciato a chiamarla Miranda, come Meryl Streep nel Diavolo veste Prada, che si faceva portare a casa il lavoro dalla segretaria schiavizzata ogni sera dopo le ventidue, e anche la nostra direttora Miranda ci manda circolari e convoca riunioni sulle scadenze dei bonus emergenziali la sera dopo le ventidue, sabato domenica e festivi inclusi.
Adesso glielo scrivo: Miranda, datti una calmata!
Tanto guarda che dell’Istituto ne parleranno male comunque, anche se tu e io e Ezio e chissà quanti altri vegliamo lavorando invece di dormire. L’Istituto è condannato alla cattiva fama, è il capro espiatorio delle gestioni sciagurate, dei politici corrotti e degli incompetenti, non vogliono che funzioni, che sia quell’isola di perfezione che tu sogni e ho sognato anch’io, perché così possono mettere le mani nelle casse e scaricare le colpe.
È per questo che le procedure le fanno fare quasi tutte a esterni, che del lavoro non sanno niente e sono pagati a progetto, e ogni aggiunta o modifica si paga a parte. Così le procedure vanno in tilt e tu ti prendi la colpa, Miranda. Fattene una ragione. Hai voluto fare carriera?
Io c’ho pure simpatia per Miranda la stronza. Ogni tanto mi sarebbe perfino piaciuto che la riunione notturna la convocasse dal vivo, in osteria, così almeno ci bevevamo un bicchiere di vino tutti quanti insieme. Sogni, sogni…
Magari intanto che lavoro faccio un po’ di cyclette, che devo ancora perdere un chilo dei due che ho preso da quando non esco.
Comunque tra poco sorge il sole, beato lui che può sorgere.”