Cronache di una cittadina trapiantata su un selvaggio bricco del cuneese
di Manù
È arrivato Formaggino, detto Ginetto, cucciolo felino di tre mesi, pieno di catarro, con la dissenteria, che fa la pipì in giro, con un lieve ritardo mentale e che mangia solo nasello.
Proprio quello di cui avevo bisogno.
Salvato in extremis da un bruto che ha sterminato tutta la sua famiglia, nessuno lo adottava perché brutto.
Non vedo come un gatto o qualsiasi altro animale possa essere “brutto”.
E, nel caso, non vedo come possa essere importante.
Comunque adesso è qua e facendo la conta arrivo a sei gatti. Già, perché oltre a Bibo e Baby, Linda e Lindo (che è risultato essere una femmina, quindi è diventato La Lindo!) ho ereditato Mina, la gatta della mia vicina, che purtroppo è mancata.
Se aggiungiamo Geppo, il cane del vicino di cui mi prendo cura io, il cane ereditato Michi e la gallina superstite Clara, ne vien fuori un bel gruppetto in cui non è possibile sentirsi soli.
Neanche volendo.
Le relazioni tra loro, tutto sommato, vanno.
Linda, a cui piace tanto distribuire schiaffoni, ha sottoposto al medesimo trattamento Ginetto per i primi giorni, per poi arrendersi alle avance del piccoletto e agli schiaffoni che arrivavano a lei da me, che non vado più tanto per il sottile.
Adesso è persino un po’ materna, se pure con qualche riserva.
La Lindo e Ginetto sono diventati grandi amici, si danno un sacco di mazzate, dormono vicini e fanno danni in coppia.
Una meraviglia.
Bibo e Baby, già scocciati per la presenza di Linda e La Lindo, non entrano più in casa e guardano storto i nuovi arrivati, ma non picchiano più nessuno.
Li ho beccati intrufolarsi a casa del vicino per farsi delle gran dormite sul divano.
Mina è molto amica di Bibo e Baby, ma non di Linda che la odia, e dai piccoli scappa a gambe levate, va a capire il perché.
Michi, con un sedere in più da annusare, è felice ma guardingo. Dei gatti meglio non fidarsi.
La gallina Clara, da quando è rimasta sola perché le sue colleghe Luigina e Rita sono state assassinate da un predatore nel bosco, passa le sue giornate a cercare un modo per entrare in casa e quando ci riesce sale pure sul divano.
Io più volte al giorno la metto fuori e lei protesta.
Osservare il volo degli uccelli mi procura sempre un certo complesso di inferiorità.
Vero è che io sono bravissima, per esempio, a fare l’orlo ai pantaloni e loro no, ma quando li vedo librarsi lassù non posso fare a meno di sentirmi piccola e insignificante.
Sono tutti bellissimi, ognuno con il suo stile e la sua particolarità.
La maestosa poiana, che si lascia portare dalle correnti ascensionali, le acrobatiche e imprevedibili cince che mi fan venire dei colpi al cuore perché sembra sempre che stiano per andare a sbattere a velocità supersonica contro qualcosa, e invece no.
I velocissimi merli e i pesanti ma instancabili corvi.
E le ghiandaie, i picchi, i pettirossi e tutti quelli che non ho la più pallida idea di cosa siano.
Che meraviglia, che invidia.
Gli proporrei volentieri un cambio, anche se dubito fortemente che possano essere interessati a farsi un giro con i miei pantaloni.
Da queste parti ho notato una certa propensione a piantare alberi per poi buttarli giù.
La scelta dell’albero è determinata solitamente dalle tendenze di mercato.
Esplodono delle vere proprie mode, che portano un gran numero di proprietari di terreni boschivi ad abbattere gli alberi presenti per sostituirli con altri che vanno per la maggiore.
Poco importa se quegli altri siano autoctoni o no.
Anni fa tutti piantavano noci, dai frutti e dal legno pregiato, valutati tantissimo, davano valore al terreno.
Peccato che il noce abbia bisogno di circa vent’anni per dare frutti e avere una dimensione interessante per l’arte del mobile e che nel frattempo i cambiamenti climatici e i fattori di inquinamento ambientale abbiano reso difficilissima la produzione di noci e che il mercato del mobile artigianale sia crollato, essendo ormai in pochi quelli disposti a spendere un capitale per una cassapanca.
Cosicché ora come ora non valgono più nulla, se non come legna da ardere e anche così il profitto è limitato.
Negli ultimi anni vanno per la maggiore i marroni giapponesi. Crescono e danno frutti velocemente, ma l’esubero di offerta sta iniziando a far scendere i prezzi di queste castagne enormi, perfette e del tutto insapori, che fino a poco tempo fa erano pagate benissimo per l’uso in pasticceria.
La faccenda si fa quasi tragica per i faggi, alberi bellissimi e autoctoni che portano con sé due sciagure. La prima è quella di essere molto richiesti come legna da ardere, in quanto scaldano molto e sporcano poco, la seconda è la crescita lentissima, un bosco di faggi ci mette circa cinquant’anni per rifarsi, quindi vengono solo abbattuti e non ripiantati.
E poi ci sono le pinete.
Come legna da ardere quella del pino non va, per fare mobili neppure, il pellet che vedo in giro è prevalentemente svizzero o austriaco: e allora perché diamine ne hanno piantati tanti?
La risposta me l’ha data il tagliaboschi chiamato dal vicino per far abbattere i due abeti e i quattro larici dietro casa sua, sei esemplari splendidi, anziani e altissimi, diventati però troppo pericolosi per l’estrema vicinanza all’abitazione.
Pare che la responsabile della popolarità dell’abete sia una cartiera di zona che 20/30 anni fa invitò i proprietari di terreni a creare pinete, promettendo di acquistare il legname.
Peccato che poi nel giro di pochi anni sia diventato più conveniente comprarlo all’estero.
Domanda: E adesso quanto abbattono le pinete che hanno preso il posto dei boschi di castagni, faggi e betulle, che ne fanno del legname?
Risposta: Lo pagano pochissimo e ci fanno bancali.
La stessa sorte che toccherà agli abeti del vicino.
Mi sono venute le lacrime agli occhi, sotto lo sguardo attonito del tagliaboschi.
Foto di Manù e Andrea Ferrante