Cronache di una cittadina trapianta su un selvaggio bricco del cuneese
di Manù
Finalmente una tregua dopo giorni di pioggia incessante.
Carica di buoni propositi per la giornata, mi occupo delle galline che faccio uscire all’aperto. Poi mi dedico alle piantine di fragola che mi sono state regalate subito prima che cadessero 27 centimetri di neve.
Decido di metterle momentaneamente in vaso e ripensarci quando le temperature saranno più consone.
Recuperata della terra dall’orto e sistemate le piantine mi avvio con le braccia cariche di vasetti e arrivata davanti alla capanna delle galline non mi accorgo di un pezzo di rete antigrandine spenzolante che mi aggancia un piede facendomi schiantare violentemente con il ginocchio destro su una delle tre pietre superstiti del vecchio selciato.
Sì perché nella vita ci vuole anche un po’ di culo.
Prima stupore e poi immediatamente dolore così intenso che sto per vomitare. Sono in affanno, mi trattengo dall’urlare, poi penso ma perché mi trattengo e urlo, bestemmio anche un po’ e mi sembra che questo mi aiuti.
Il dolore è davvero fortissimo ma cerco di recuperare un minimo di lucidità.
Controllo.
Il ginocchio sembra essere ancora lì dove deve essere.
Riesco ad alzarmi?
No.
Dove sono?
Nella “pauta” (termine piemontese che significa fango, volendo metaforicamente anche altro…)
Ho il telefono?
Sì.
C’è campo?
No.
Porco qui, porco lì, porco su, porco giù.
Devo assolutamente togliermi da qui, sono nel bagnato, ho freddo, il ginocchio mi fa malissimo, mi gira la testa, mi formicola il naso, ho una nausea pazzesca e un pezzo di sterrato fangoso e una gradinata di 24 scalini mi separano da casa.
Quel percorso che faccio decine di volte al giorno e mi è sempre sembrato banale ora è una sfida.
Non ho altre opzioni se non trascinarmi sul sedere aiutandomi con le braccia e la gamba buona, ripassando mentalmente tutte le parolacce che conosco perché a ogni movimento il ginocchio infortunato mi manda delle fitte pazzesche.
Meta raggiunta.
Sono esausta, coperta di fango, il dolore non molla e mi rendo conto che aspettare che passi, cambiarmi e ricominciare saltellare qua e là come una capretta su per la montagna è una pia illusione.
118.
Faticano a trovarmi.
Ci mettono una vita.
Mi trovano.
Il cane Bix non li morde.
Pronto soccorso.
Rotula rotta.
Non tanto, però è rotta.
Gesso e un mese (ahaaaaaaaaaaaa!) senza carico.
Quando si hanno le mani occupate dalle stampelle, una gamba intrappolata nel gesso dalla coscia alla caviglia e una casa che sembra fatta apposta per chi ha una gamba rotta (dislivelli ovunque, scale a chiocciola per raggiungere bagno e letto) è complicato fare qualsiasi cosa. Occuparsi di sette gatti, tre galline di cui una disabile, un cane che si fa i cavoli suoi e se vogliamo mettiamoci pure una volpe che tutte le sere puntuale aspetta la sua razione, è veramente arduo.
Per i primi giorni posso godere dell’aiuto di persone care che forse smetteranno di volermi bene dopo aver affrontato il mio cattivo umore, poi in qualche modo dovrò arrangiarmi.
I gatti sembrano aver capito che qualcosa non va, non mi rompono le scatole per entrare, uscire e mangiare e mi guardano perplessi muovermi per casa con le stampelle. Quando, dopo essermi issata da seduta su per la scala a chiocciola, gradino per gradino, riesco a raggiungere il letto, si mettono tutti intorno a me, cosa che non contribuisce alla mia libertà di movimento, e mi fanno la guardia.
Sono in una botte di ferro.
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