di Redazione
Le notizie che ci arrivano dall’Iran sono dolorose ma meravigliose. Un intero popolo – ricco di antiche tradizioni di civiltà e cultura – sta protestando contro un regime soffocante e brutale, e le donne sono in testa alla rivolta. A scatenare la sollevazione collettiva è stata l’uccisione della ventiduenne Mahsa Amini, originaria del Kurdistan e accusata dalla polizia morale di non portare correttamente il velo. Ma il vero nome di Mahsa, dice il regista Fariborz Kamkari intervistato dal Manifesto, è Jhina, che in curdo significa “nuova vita”. Tra le tante oppressioni del regime iraniano vi è anche la proibizione di usare i nomi curdi.
La rivolta, in cui tutte le classi sociali sono unite, dilaga da giorni e viene repressa con la violenza. Ormai si contano decine di altre vittime, tra cui donne che sono scese in piazza senza velo, osando infrangere il caposaldo della politica del regime, la cancellazione delle donne da ogni forma di vita pubblica e ruolo sociale che non sia quello di moglie e madre. Il regime ha bloccato internet e incarcerato molti giornalisti, ma le notizie si diffondono e vanno sempre più diffuse, come afferma Asghar Farhadi, due volte vincitore del premio Oscar con i suoi film Una separazione e Il cliente, che nel suo video Instagram diffuso anche da alcuni quotidiani afferma che la società iraniana, e in particolare le donne, “hanno raggiunto con chiarezza un momento epocale. Le ho guardate da vicino in queste notti. La maggior parte di loro è molto giovane: diciassette, venti anni. Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità cui sono soggette. Sono orgoglioso delle donne forti del mio paese e spero sinceramente che attraverso i loro sforzi possano raggiungere i loro obiettivi.” E conclude invitando “tutti gli artisti, i registi, gli intellettuali, gli attivisti per i diritti civili di tutto il mondo, e chiunque creda nella dignità umana e nella libertà, a supportare le donne e gli uomini coraggiosi dell’Iran”.
Donne coraggiose che bruciano il velo, che cantano Bella ciao nella loro lingua, che affrontano disarmate i manganelli e fucili. Intellettuali e giornalisti che si espongono alla violenza di un potere che sa soltanto reprimere ciecamente. Cartelli che dicono “Noi iraniani NON vogliamo la repubblica islamica”, come quelli comparsi alla manifestazione del 23 settembre a Torino. Un cinema che, in questi ultimi anni, ci ha regalato film di rara autenticità e poesia. Un mondo dell’arte che ci ha donato le foto di Shirin Neshat, i fumetti di Marjane Satrapi, i libri di Azar Nafisi.
Un paese che, proprio in questo momento, può insegnarci a riempire di nuovo di senso parole svilite come libertà e diritti, quei “diritti semplici ma fondamentali” che nessuna e nessuno di noi può mai permettersi di dare per scontati.