Riflessioni sulla xenofobia e sul referendum in Svizzera
di Paolo Barcella
Illustrazioni di Pat Carra
Una delle prime cose ho appreso da alcuni compagni di studio ticinesi all’Università di Losanna, nel cuore della Svizzera francese, fu che la xenofobia anti-italiana, molto diffusa negli anni Sessanta e Settanta, si era ridotta nei decenni successivi in tutti i cantoni tranne che nella Svizzera… italiana. Nel Canton Ticino, mi dicevano, circolerebbe ancora oggi, per indicare le cittadine e i cittadini italiani, il termine Màia ramìna (Mangiatore di rete metallica) con il quale si evoca l’immagine degli emigrati in fila a Chiasso, a pochi metri dalla frontiera della Confederazione tracciata da recinzioni metalliche che, pur di entrare, sarebbero disposti a divorare.
Mi resero anche edotto di un’espressione diffusa in numerosi settori sociali ticinesi: Ul tagliàn sa ta frèga mìa incö, ta frèga doman. Ovvero, “l’italiano, se non ti frega oggi, ti frega domani”, a indicare – e consolidare in forma di stereotipo – la presunta naturale tendenza dell’italiano a ingannare il prossimo, tanto da portare il cittadino svizzero più accorto a diffidarne sempre, e soprattutto quando l’italiano appaia onesto perché, in quel caso, sarà semplicemente capace di apparire tale, in ragione della sua astuzia e cinismo.
Stereotipi e attitudini anti-italiane si mantengono nel Canton Ticino, più che nelle sezioni della Svizzera tedesca e francese, per due ragioni principali. La prima è tutta interna e dipende da quello che potremmo definire il complesso “della riserva indiana”. Molte e molti ticinesi vivono una sorta di complesso nei confronti degli svizzeri tedeschi dai quali si sentono considerati, per ragioni storiche precise, meno svizzeri, troppo simili, soprattutto nei difetti, ai vicini italiani dei quali condividono lingua e cultura. Ciò produce il tentativo di rimozione ed esorcizzazione di quella che evidentemente è una realtà, facendo sì che un gran numero di ticinesi si ergano al ruolo di zelanti portatori del vessillo anti-italiano.
Ma la ragione più importante consiste nella peculiare realtà socio-economica cantonale che dipende dalla sua posizione geografica. Il Canton Ticino è un caso di studio unico per chi si occupa della mobilità da lavoro transfrontaliero e delle tensioni che ne possono derivare. Negli ultimi anni, le lavoratrici e i lavoratori italiani frontalieri e i notificati – la forma interinale più estrema del frontalierato – sono arrivati a contare quasi 100.000 unità, a fronte di 350.000 abitanti svizzeri. La loro presenza qualitativa e quantitativa costituisce un fattore di tensione importante nel mercato del lavoro locale ed è all’origine di polemiche su altri aspetti della vita pubblica e sull’erosione delle risorse ambientali. Certo, anche altri cantoni – come Basilea, Ginevra e Neuchâtel – hanno alti volumi di frontalieri, tuttavia sono integrati in modo diverso e meno conflittuale nei rispettivi mercati del lavoro, come esito delle loro diverse storie di integrazione economica regionale.
Questa situazione parrebbe trovare conferma nei risultati dell’iniziativa popolare Per un’immigrazione moderata (Iniziativa per la limitazione) voluta dall’UDC, partito della destra xenofoba svizzera e votata il 27 settembre scorso. L’UDC intendeva continuare il lavoro iniziato nel 2014 con il referendum contro l’immigrazione di massa, per limitare la libera circolazione di lavoratori originari della UE, in contrasto con i principi stabiliti dagli accordi bilaterali tra Unione europea e Svizzera, firmati nel 1999 ma entrati in vigore nel 2002. Nel 2014 i cittadini ticinesi, motivati soprattutto dal forte astio nei confronti del frontalierato italiano, votarono massicciamente a favore, con percentuale di SI’ prossima al 70%. Ma di fatto, per poter trovare una attuazione, le misure introdotte imponevano una revisione degli accordi bilaterali e in particolare la cancellazione della libera circolazione.
Questo era lo scopo del referendum del 27 settembre 2020 che però, nonostante il clima politico appaia ovunque favorevole a qualsivoglia misura xenofoba, si è tradotto in una sconfitta bruciante per l’UDC: solo il 38% della popolazione svizzera complessiva ha sostenuto l’iniziativa. Se guardiamo ai cantoni di maggior peso economico, finanziario e demografico, soltanto il Canton Ticino è andato in controtendenza: il 54% degli elettori sarebbe uscito volentieri dall’Unione Europea, pur di non concedere la libertà di circolazione ai lavoratori e le lavoratrici frontaliere in fila a Chiasso.
E quindi? I ticinesi sono naturalmente più razzisti e xenofobi degli altri svizzeri?
Sono convinto che non sia così, ovvero che le cittadine e i cittadini del Canton Ticino non siano mediamente più xenofobi dei lombardi o degli svizzeri in generale. Semplicemente, il Canton Ticino è diventato nel corso degli anni – per una serie di ragioni storiche articolate e complesse – una sorta di laboratorio della mobilità transfrontaliera, di cui gli abitanti vivono tutte le tensioni e le contraddizioni: per esempio, da un lato approfittano dei prezzi bassi che possono garantire il lavoro frontaliero e notificato, ma dall’altro ne percepiscono la pressione sui salari e sulle condizioni di lavoro, che coinvolgono tutti e tutte.
Per saperne di più: P. Barcella, I frontalieri in Europa. Un quadro storico (Biblion Edizioni, Milano, 2019)
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