di Robin Morgan
Illustrazioni di L!v!a
È ora di fare coming out. Nel luglio del 2020 ho avuto una piccola operazione al cervello.
Quando l’ho descritta agli amici, dopo, tutti hanno detto “Oh mio Dio, hai scritto di questo? Devi!” Ma ci sono momenti in cui hai bisogno di riprenderti e orientarti e andare avanti con la vita, e poi non è che non stessero succedendo cose là fuori nel mondo che dovevano essere affrontate: Il cambiamento climatico. Una pandemia. Il sessismo e il razzismo e altre cose. Di recente, la guerra. Comunque, ne sto scrivendo ora.
Come ho già detto nel mio blog, circa 12 anni fa mi è stato diagnosticato il morbo di Parkinson. Sono stato molto fortunata, perché ho una famiglia e degli amici amatissimi e molto solidali; in più ho tollerato bene le medicine, e nel il decennio intercorso l’avanzata di questa malattia progressiva è stata così lieve da non farsi quasi notare. Sì, ho fatto esercizio, ho mangiato correttamente e mi sono riposata a sufficienza, per quanto può riposare un’attivista femminista. Ero anche molto privilegiata: un’americana europea alfabetizzata, con buone cure mediche e una buona assicurazione.
Ma dal 2020 ho cominciato a sentire gli effetti del Parkinson: tremori crescenti, maggiori problemi di equilibrio e peggio ancora discinesia e distonia come effetti collaterali in risposta al farmaco, levodopa carbidopa. Questi effetti possono provocare instabilità o far venire i crampi e bloccare certi muscoli in modo molto fastidioso. La mia splendida neurologa, una specialista in disturbi del movimento, aveva esaurito il suo calderone creativo di cocktail medici – un po’ più di questo, un po’ meno di quell’altro – così non mi restava che accettare la situazione o affrontare la DBS.
DBS sono le iniziali di Deep Brain Stimulation, stimolazione cerebrale profonda. So che suona come una cosa che potrebbe servire a chiunque, perché chi mai vuole lavorare con un cervello superficiale? In realtà, naturalmente, è qualcosa di più complicato. È come un pacemaker per il cervello, invece che per il cuore. Così la parte letterata di me si è messa al lavoro e ha fatto delle ricerche sull’argomento. La ricerca è stata reciproca, perché l’intervento richiedeva che fossi sottoposta a test approfonditi sia per la salute fisica che per quella cognitiva, dato che la cognizione è compromessa in alcuni malati di Parkinson. Ho superato gli esami. Possiamo saltare i dettagli – non è molto interessante sapere come abbiamo pianificato l’accesso al sito cerebrale in profondità nel sottotalamo – e passare al meraviglioso chirurgo che ho trovato.
Aveva già fatto circa 20.000 procedure di questo tipo, il che era rassicurante, ma la cosa migliore era sapere che sarei stata sveglia durante l’operazione principale. Per un’amante della scienza come me era entusiasmante, anche se gli amici hanno levato grida di sgomento.
Fortunatamente, è persino necessario essere svegli. Il cervello in sé non ha recettori del dolore, quindi una volta anestetizzato il cranio con un’iniezione non si sente nulla. Per di più hanno bisogno che tu sia sveglia perché quando sono lì dentro, ti chiedono di muovere le dita, dire i giorni della settimana, contare a rovescio e altre prove di cognizione, per essere sicuri di trovarsi nel posto giusto.
In realtà le operazioni sono due. La prima richiede un’analisi medica completa, un test da sforzo e una risonanza magnetica del cervello. È in questa che stai sveglia. Passi in ospedale una sola notte, cosa che trovo sorprendente. Quindi entri, fai l’iter pre-operatorio, ti dicono cosa faranno e ricevi le risposte alle tue domande non solo dal chirurgo ma anche da una giovane donna efficiente e piacevole che è la sua infermiera (così adorabile da aver letto alcuni dei tuoi libri), poi ti infilano la testa in una specie di gabbia di metallo in modo che resti immobile, e infine vai in chirurgia. Lì, imbullonano la gabbia al tavolo operatorio per assicurarsi che non ci sia alcun movimento. Niente di tutto questo è fastidioso. Sei collegata a varie macchine che monitorano tutto, dalla respirazione alla frequenza cardiaca, dalla pressione sanguigna al livello di ossigeno, e così via. Fa piuttosto freddo in sala operatoria – immagino sia richiesto dalle grandi macchine che sono ovunque, comprese quelle per la microchirurgia – quindi ti forniscono premurosamente delle coperte preriscaldate che ti tengono caldo. Non c’è stato bisogno di rasarmi la testa, solo una piccola zona dove sarebbe stata fatta l’incisione. C’erano parecchie persone in sala operatoria, forse otto: anestesista, pneumologo, neurologo, cardiologo, ecc. E poi c’ero io. La stanza era silenziosa – questo chirurgo non ama la musica – e attenta. Sentivo di essere in buone mani.
Finiti il preamboli, il chirurgo chiama tutti quanti e controlla che siano pronti, e ognuno risponde. Anch’io. Poi senti una puntura di spillo sul cuoio capelluto e dopo più nulla. Ma le tue orecchie sì che sentono! Sentono il suono di un buco nel tuo cranio che viene delicatamente segato. Beh, pensi, davvero interessante. Il suono diventa sempre più forte. Anche se ti hanno informata prima, ti sembra comunque di avere un treno della metropolitana che corre dentro la tua testa, ed è decisamente impressionante. Poi di colpo si ferma. Dopo un momento, il chirurgo dice: “Fatto. Vedo il tuo cervello, Robin”.
“Uau,” mi sento dire, in modo un po’ idiota. Uau? Tutto qui il mio commento?
Passa un minuto o due, forse di più, in cui le macchine giganti e le telecamere di microchirurgia vengono manovrate al loro posto.
“Tutto bene, Robin?”, chiede premuroso il chirurgo. “Oh sì”, rispondo allegramente, “sto bene, benissimo”. Finora, la chirurgia cerebrale mi sta rendendo banale. D’altronde, non sono qui per fare dello spirito. In realtà sono a bocca aperta (se potessi muovere la testa) per lo stupore.
Il chirurgo chiede di nuovo a tutti se sono pronti. Poi dice “OK, sto entrando” e comincia a contare. Uno. Una pausa di circa sei secondi. Due. Un’altra pausa di circa sei secondi. Tre. E così via fino a 15. “Perfetto”, dice, “penso che siamo nel posto giusto”. Poi inizia le prove di rito per controllare il posizionamento dei piccoli elettrodi. “Robin, muovi la mano destra e muovi le dita. Bene. Ora la mano sinistra. Bene. Ora unisci il pollice e il medio della mano destra”. E così via. Seguono i giorni della settimana e il conteggio all’indietro, e tutto viene bene.
È una cosa che toglie il fiato. Infatti, sto letteralmente trattenendo il respiro e prima l’anestesista e poi l’intera stanza mi richiamano a gran voce: “Respira, Robin, respira!”.
Respiro. Con piacere. Poi non resisto a dire al chirurgo: “Michael, perdona il mio linguaggio, ma devo dirtelo: questo è incredibile, cavolo”. (A parte il fatto che ho detto un’altra parola diversa, non cavolo.) Lui ride. Poi inizia il percorso di uscita, dopo aver impiantato gli elettrodi – i fili che conducono gli impulsi elettrici. “15”, dice, e poi la solita pausa. Poi 14. Pausa, poi 13, e così via finché non dice: “Sono fuori”. C’è un sospiro di sollievo collettivo, ma non è un sospiro nervoso. È un’esalazione di fiduciosa realizzazione da parte di tutti i presenti.
E poi dice: “Ok siete tutti pronti per l’altro lato?” E l’intera procedura si ripete, perché questa era una procedura bilaterale nello stesso giorno. Alla fine ha chiuso la ferita, ringhiando al suo assistente con la meravigliosa arroganza dei chirurghi: “Chiudo io. Non ti lascerò rovinare una procedura perfetta”. Come suona bene l’espressione “procedura perfetta”! Poi sono stata avvolta nelle coperte, aiutata a scendere dal tavolo e portata in sala risveglio.
Nel frattempo, anche se la mia deambulazione è ancora un po’ compromessa (uso un bastone quando ne ho bisogno, ma ormai ho abbandonato il rollator e il deambulatore), tutto il resto è eccellente: discorso, scrittura, tremori, voce, ritmi del sonno, digestione, umore, e così via. Dicono che alla fine la DBS sarà la prima terapia per il Parkinson, aggirando i farmaci e passando direttamente agli impulsi elettrici. Sulla base della mia esperienza personale, posso dire: Bravi!
È vero che c’è voluto un po’ di tempo per togliermi il gel dei capelli, ma è un piccolo prezzo da pagare per questo miracolo scientifico. L’intervento di cataratta di qualche anno fa, l’impianto al titanio per la mia ernia del disco nel 2009 e ora i cavi nel mio cervello fanno di me una donna bionica – e ne sono felicissima.
Il racconto è apparso sul blog di Robin Morgan il 4 aprile 2022