di Robin Morgan
Illustrazione di Isia Osuchowska
Traduzione di Margherita Giacobino
Gli artisti ucraini – artisti dello spettacolo e creativi – stanno aiutando il loro paese, donando tempo, concerti, ecc., e lo fanno senza vergognarsi di essere artisti e non indossare un’uniforme. Lo trovo commovente, e mi ha fatto pensare alle donne e all’arte.
C’è una differenziazione un po’ bizzarra che i critici patriarcali fanno tra quelle che chiamano belle arti e il cosiddetto artigianato. Le belle arti, si sa, sono prodotte da uomini bianchi ed etero, sono esposte nei musei e, sebbene a volte siano brillanti, espressive e ispiratrici, non fanno nulla. Il cosiddetto artigianato, d’altra parte (quasi totalmente fatto da persone di sesso femminile), di solito ha uno scopo indipendente o al di là della sua bellezza: produce tessuti per fare abiti o avvolgere i bambini, cesti intrecciati per trasportare bambini piccoli o attrezzi o verdure; ceramica per cucinare, trasportare liquidi, e così via. Eppure questi oggetti sono molto spesso stupefacenti per design e bellezza. Non ho mai capito bene perché, se qualcosa ha uno scopo utile ma è comunque esteticamente piacevole, viene declassato ad artigianato, mentre se è appeso al muro e non serve a niente è arte raffinata. Forse l’inutilità ha un valore che non riesco a comprendere?
Ma questi artefatti delle donne, presenti praticamente in ogni cultura del pianeta da tempo immemorabile, hanno anche uno scopo politico. Che si è cominciato a scoprire da quando esiste un movimento delle donne a livello mondiale e interculturale, e ci sono delle storiche che lo hanno messo in luce. Eccone alcuni esempi.
In Cile, durante la lunga dittatura militare, le donne hanno ripreso le tradizionali Arpilleres (che significa “iuta”): borse e sacchi in tessuto, coperte, arazzi decorativi, ricamati con immagini di persone intente ad azioni quotidiane, in allegri colori solari. Solo gli iniziati capivano che le azioni raffigurate e il territorio su cui le figure si muovevano erano un codice per le attività clandestine
antidittatoriali. Allo stesso modo, durante l’Intifada in Palestina/Israele, quando la parola Palestina e i colori della bandiera palestinese erano banditi, i complessi e sofisticati ricami delle donne osavano utilizzare quei colori proibiti, sottilmente intercalati agli altri ma chiaramente distinguibili, e incorporare nel ricamo la parola Palestina, in arabo e in inglese, in modo che fosse appena visibile.
Questa astuzia venne usata anche nei grandi lavori sul terreno. Nelle Cordilleras, la regione montuosa nel nord delle Filippine, le donne coltivano il riso su terrazze pianeggianti tagliate nel fianco della montagna. Il riso è piantato secondo schemi decorativi, spirali e forme geometriche. Ma durante il regime corrotto di Marcos, si potevano vedere dall’alto o lateralmente parole scritte chiaramente in inglese che esprimevano le proteste delle donne tribali indigene contro l’estrazione mineraria e il taglio degli alberi per l’industria: Rivoluzione, Cambiamento, Rivolta.
A Mithila, una provincia dello stato di Bihar nel nord-est dell’India, sono le donne, e solo le donne, a dipingere. Dipingono scene sacre tradizionali tantriche, dal poema epico “Ramayana”, per esempio, ma dipingono anche sulle lettere con cui le ragazze non sposate propongono il matrimonio agli uomini di loro scelta. Molte delle immagini sono esplicitamente sessuali, con una yoni aperta e un fallo eretto, perché la religione tantrica enfatizza l’energia sessuale. (Questo turbava profondamente gli inglesi colonizzatori, che lo consideravano una dissolutezza!) Tra i dipinti, quelli sulle pareti di fango sono come libri illustrati da cui si imparano le storie delle antiche epopee. La ragione principale della sopravvivenza di questa antica arte tradizionale è, paradossalmente, l’impermanenza dei materiali. Sono economici, il clima è umido, e le pareti o i pavimenti devono essere ridipinti costantemente. Le madri istruiscono le figlie, perché solo così si può assicurare la continuità della conoscenza, della materia come della tecnica.
E, senza guardare lontano, basta pensare agli Stati Uniti del Sud del XVIII secolo e alla straordinaria arte praticata dalle donne africane schiavizzate, tra cui i grandi quilt che venivano cuciti collettivamente nelle riunioni delle donne. Tra l’altro, anche i testi dei cosiddetti spiritual Neri erano messaggi in codice sui percorsi di liberazione dalla schiavitù. Le immagini di semplici sentieri di paese o di astratti zigzag dei quilt raffiguravano in realtà le strade che portavano verso il Nord, e lo stesso vale per “Swing Low, Sweet Chariot” e altri spiritual, che potevano essere cantati nelle chiese cristiane nere senza che i padroni delle piantagioni avessero la minima idea del loro reale significato. La genialità, estetica e politica, di questi espedienti è strabiliante.
Il fatto che l’opera abbia un significato politico non la degrada al livello di “realismo socialista”, che sa di indottrinamento e di dogmatismo, e certamente non ha niente a che vedere con il sentimentalismo da cartolina. È qualcosa di totalmente diverso.
Chiunque abbia pensato per primo di separare l’arte dall’uso e dal significato ha molte spiegazioni da dare. Non intendo mettermi a inveire sul mercato dell’arte, i ricchi collezionisti e le lussuose gallerie che fanno dell’arte un’industria mentre molti artisti ancora vivono e muoiono in povertà. Uno dei miei ricordi più cari di Kate Millet, che fu scultrice e pittrice oltre che scrittrice e femminista, è che faceva serigrafie per stampe poco costose perché, diceva, tutti dovrebbero potersi permettere un pezzo di vera arte.
L’arte stessa si trova in una posizione analoga a quella delle donne. Entrambe apparentemente sfidano sia la nozione di senso comune e il modo in cui il mondo sembra essere naturalmente orientato, sia il potere che si suppone abbia la razionalità. In altre parole, l’arte è stata classificata come non teoria, non scienza e non verità; come le donne e come la libertà è stata definita (dal patriarcato) in negativo. L’arte è vista come sovversiva, e la donna artista doppiamente.
E non è casuale che si sappia un po’ di più delle donne scrittrici rispetto alle loro sorelle artiste. Per produrre la loro arte, i compositori hanno bisogno di collaboratori: musicisti, orchestra, un teatro lirico, ecc. Gli artisti visivi necessitano di materiali costosi. Alle donne è stato in gran parte impedito l’accesso alla musica perché mancava la collaborazione necessaria alla performance, che è necessariamente pubblica. Alle donne è stato per lo più negato l’accesso alle arti visive, cioè alle “belle arti”, perché siamo state per millenni una casta economicamente svantaggiata, che raramente ha i mezzi per comprare i materiali. Molte delle donne artiste visive che oggi vengono “scoperte” risultano essere figlie (o più raramente mogli) di artisti maschi, che hanno sviluppato familiarità con i materiali negli studi e negli atelier degli uomini. La scrittura, invece, è privata e richiede solo un pezzo di carta e una matita o una penna. (L’editoria, naturalmente, è una questione del tutto diversa).
Eppure un tema costante e transculturale dell’arte femminile attraverso i secoli è stato la bellezza delle cose umili, proprio in quanto cose. A questo tema principale dell’uso, che si potrebbe chiamare utilitarismo trascendente, si affianca la qualità effimera del lavoro, che non è destinato ad essere permanente. Quello che conta è creare l’opera, non l’ego di chi la crea. Le pitture di sabbia sono fatte per le cerimonie di guarigione; le pitture di riso sono una celebrazione di rituali religiosi. Entrambe sono fatte da donne, e il punto è il fare; questo è ciò che conta, non il preservare perché altri possano passivamente vedere. I più grandi arazzi del Medioevo, prodotti da donne tessitrici nel sud della Francia, servivano a isolare dal freddo le stanze dei castelli dalle pareti di pietra, ma nella loro iconografia codificavano anche riferimenti esoterici a Wicca, Albigesi e altre fedi eretiche.
Le donne sembrano aver ricevuto il messaggio che l’arte stessa è una metafora attiva, eterna e senza fine: gioco dinamico, gioco serio, gioco alto. Come ha detto la filosofa Susanne K. Langer, il gioco non è forse un bisogno fondamentale? Come la creatività che il gioco esige, e l’insaziabile, irrefrenabile, selvaggia e disciplinata necessità di deliziare se stessi e gli altri, e di essere utili nel farlo. Essere utili. Non solo per fare cose belle, ma per rendere belle le cose. Forse stiamo finalmente ritrovando la strada per andare avanti.
*L’articolo è apparso sul blog di Robin Morgan il 3 maggio 2022