di Francesca Maffioli e Laura Marzi
Illustrazione di Isia Osuchowska
Mia Protagora,
l’autunno incipia e con lui la fatica.
Loro mi direbbero che mi sento già fuori uso. Mi chiedi chi sono loro?
Ora ti racconto.
Settimane addietro è giunta dalla penisola italica fino all’autarchica Lutetia notizia dello scempio comunicativo di una campagna per far figli.
Ci vogliono incentivare alla riproduzione forzata ricordandoci l’assillo del tempo, come se fossimo degli yogurt a scadenza; alla corsa contro il tempo, aggrappati all’idea che i nostri corpi siano solo la somma delle nostre energie e del nostro potenziale materno. Ci hanno schiaffeggiato con quest’idea che le energie fisiche affievoliscono come la batteria delle pile. Esaurite. Come se già non lo fossimo da prima, esaurite.
A lor dire: 35 anni di potenziale sprecato e di ovuli che se ne (s)corrono via, ogni mese.
Ma che vogliono da noi? Perché si vogliono occupare del nostro corpo e si arrogano con arroganza odiosa la gestione dei nostri tempi e di quelli del nostro utero?
Voglio chiedere a te di questo tempo dannato, se lo senti scorrere o premere; se lo senti sfuggire silenzioso o se invece ogni giorno ti parla di una o di tante scoperte – di te e di quelle e quelli che ti circondano. Se lo senti ti voglio chiedere cosa ascolti nel rumore che fa mentre ti scorre fra le dita: ti canta di un viaggio, di un luogo, di un viso che cambia, di un’assenza, di un amore, di gatti, di libri che crescono, di progetti che si accavallano, di caffé che si susseguono oppure questo tuo tempo ti parla di creature che nascono e di quelle che nasceranno (o non nasceranno)?
Diletta Gorgia,
come sempre riesci a scovare l’angolo dolente del cuore, il lembo di vita che maggiormente pulsa.
Vivendo proprio nella penisola italica sono certamente al corrente del tentativo quanto mai goffo di spingerci alla gravidanza, tutte, come bovine alla monta. Il fatto è che per quanto riguarda il senso di inadeguatezza rispetto al tempo che passa e ai traguardi mancati io sono, come la tua Lutetia, autarchica, non necessito di sollecitazioni esterne, per altro grossolane, per sentirmi in ritardo.
Questo ritardo, però, Gorgia mia, non si limita ad essere connesso alla mia singola esistenza, è un ritardo ontologico, un anacronismo: considera che io aspetto ancora di essere felice con l’Altro per pensare di potere riprodurmi. Ancora, bado che a moltiplicarsi con la riproduzione non siano anche le incertezze più basilari: di non sapere dove vivere e non conoscere esattamente la mia identità di genere.
Nel rumore della vita che scorre sento il cozzarsi delle scelte fatte, che costituiscono il tempo passato, più o meno recente, degli errori; lo stridore dei cambiamenti dolorosi, un vuoto tonfo del tempo perduto senza goderne, quando non c’era ragione per non sorridere. Nella eco del futuro, vorrei ci fossero canti fanciulleschi, estro di ragazzini. Ti chiederai, forse, come potrò permettermi pargoli e permettermi di filosofeggiare? Beh, ti risponderò con le parole di un nuovo amico che vorrei tu conoscessi, un certo Socrate: “Io so che non so niente…”