di Laura Marzi e Francesca Maffioli
Illustrazione di Marilena Nardi
Diletta Gorgia,
la stagione delle messi tarda ad arrivare anche alle latitudini mediterranee in cui ormai dimoro, ma il tempo della vita invece non si arresta, non si impaccia e procede ineluttabile e così noi che ci conoscemmo ancora nella primavera delle nostre esistenze, avanziamo, con il nostro passo dubitoso certo, ma procediamo inesorabilmente verso la maturità. Non voglio oggi interrogarti sull’assenza di garanzie lavorative e abitative che pure connota la nostra condizione, ma su ben altro: la voglia, Gorgia, è di questo che voglio sapere da te ora.
Ti crucci mai del fatto che prese come siamo nelle maglie della sopravvivenza, delle relazioni a distanza, dell’assenza del maschio, perché poi questa è a conti fatti la nostra vita, come direbbero i vecchi del futuro: non battiamo chiodo? Credi allora che il nostro preservarci quasi intatte per dedicarci intere ai problemi, alle angosce, alle nostalgie non sia una forma di tradimento nei confronti della vita stessa, del giubilo, di quella che nella tua Lutetia chiamano la jouissance? O pensi che se noi ora provassimo a trastullarci con un amante saremmo ree di tradire i nostri compagni lontani, gli Ulisse che abbiamo scelto di non tenere al nostro fianco?
Protagora cara,
Ti scrivo agghindata di maglione, anzi cardigan verde bosco, a significare la frescura in cui esente da rimpianti mi trastullo. Imprinting celtico o pressione bassa – non so dirtene le ragioni ma son contenta che quest’anno la stagione delle messi si faccia attendere. Persefone mi sorride arcana, attardandosi negli anfratti oscuri degli inferi di Ade.
Parto dal limitare di quel che mi chiedi, cara sofistica, e ti dico subito che Ulisse sono io. Non per l’astuzia. Io sono Ulisse per aver lasciato e per lasciare la mia Penelope ad attendere. Bada bene, quell’Ulisse politropo vagheggiato in giovinezza disattende la mia stima: bellissimo quando multiforme, ma anche tronfio quando dà per scontato il tempo di chi l’attende. Ebbene, nella dimensione transeunte che definisce il mio stare al mondo talvolta anch’io mi dico di tradire la vita stessa, e non solo i suoi connotati jouissifs, ma anche quelli che si inanellano nel ripetere quotidiano. Quindi sì, tradisco la vita nel senso comune della vita stessa. Ma me ne apparecchio un’altra, in cui alla voglia e alle voglie si dà sfogo e compiacimento anche senza tradire chi e quello che non c’è. Perché il tradimento sta a monte e trattasi di tradimento – scelto o subito – della normalità di coppia. Dove dimora la mia voglia, Protagora mia? Dimora nella libertà che dispongo di tornare, quando posso, a Itaca, e di sapere che se volessi potrei anche non tornarci all’isola, mai più.