di Francesca Maffioli e Laura Marzi
Illustrazione di Isia Osuchowska
La Protagora
Gorgia diletta, sono lustri ormai che il nostro dialogo si è interrotto. La peste che ha invaso il mondo ha sottratto così tanto spazio alla nostra filosofica meditazione, al nostro chiederci per capire. Il tempo ormai trascorre scandito da minacce, angosce, incomprensibili numeri che volano nell’aere e determinano il limitarsi o l’espandersi della nostra libertà.
Non so tu, Gorgia mia, che risiedi nella martoriata Lutetia, cosa credi, come meni i tuoi giorni. Per quanto riguarda me che vivo ancora sull’italico suolo, questo isolamento a cui siamo soggette, acuisce il timore che da sempre io provo dello smarrimento.
Da quando ero una puella io ricordo di aver temuto per me stessa un allontanamento dal mondo, un esilio, che in questi mesi si sta verificando nella realtà. Il logos che governa la nostra società, le ragioni che la guidano sono adesso più che mai sconosciute e questo ci rende tutte aliene, straniere a noi stesse, alle città in cui viviamo, ai luoghi dove abitano i nostri cari, a quegli spazi un tempo familiari dove abbiamo riso con le amiche filosofe o ci siamo lasciate innamorare.
Come cittadina sono vittima di decisioni che non dico debbano essere filosoficamente fondate, ma che vorrei rispettassero quanto meno i dettami della mera logica. Un nostro successore e compatriota, lo storico Polibio, non avrebbe esitazioni a indicare nel nostro sistema un esempio di oclocrazia.
Ciò significa che coloro che dovrebbero sviluppare la sapienza hanno fallito. In questo tempo la parola intellettuale è diventata un tabù. Lo studio, la riflessione, il dubbio soprattutto sono scansati peggio del virus.
Gorgia mia, il momento è grave, e richiede azioni grandi: non è tempo per la nostra filosofia questo, che prevede che ci muoviamo di città in città a diffondere il dubbio, a mostrare la potenza del linguaggio. Ti propongo di anticipare i secoli e diventare epicuree. Il grande filosofo di Samo inviterà a vivere nascosti. E su questo, direi che questo virus ci sta agevolando. Poi, ci serve un giardino: dal suo Epicuro insegna a non temere gli dei, il dolore e la morte. E io penso che anche noi possiamo imparare, considerato che ci stiamo abituando a sopportare ogni giorno la paura di perdere il nostro Nord, il logorio di questa incertezza, il peso di tale solitudine.
La Gorgia
Protagora cara, il tempo triste che ci ha separate ha lasciato spazio ad accadimenti gravi – inaspettati o prevedibili direi – perché alcune e alcuni già li presagivano. Lutetia come Milano segue le mosse di chi decide guardando all’urgenza presente. Con lo sguardo fisso, quello che trova la misura nella piaga senza la lungimiranza di quello che sarà, gli allarmi seguono le urgenze e le urgenze i numeri che si rincorrono come le tessere del domino di Ade. In questo pallottoliere impazzito, in cui i numeri rispecchiano l’astrazione dei corpi, la mancanza degli affetti lontani è pesante di distanze nuove, di frontiere che, meteci, impariamo di nuovo a riconoscere.
Lucrezio, un giovane scrittore, un latino che nascerà quando noi saremo già a riposare nei Campi Elisi, parlerà della peste di Atene. Memore delle letture di Tucidide troverà proprio nel tuo Epicuro ragione della nostra mortalità, del suo naturale compimento. Scaccerà l’idea che i flagelli che ci tormentano siano frutto dell’ira delle dee e degli dei, in collera con le umane genti. Sarà forse vero che non sono gli olimpi a essere in collera con noi, sarà pur vero che Artemide e Poseidone non si curano di noi, ma i boschi, i fiumi, le foreste e i mari, che questi ultimi amano e noi abitiamo, quelli sì invece che sono in collera con noi.Tempi oscuri per la ragione, si dice, quelli delle pandemie.
Tempi di ripiegamenti. Del viver nascoste e nascosti. Ebbene così sia, ma solo se ripiegarsi significa l’origami della carta che dà vita alle forme e se questo viver nascoste corrisponde al tempo del maggese. Quel maggese di Persefone che si assenta, ma nel presagio di un sicuro ritorno. Ebbene così sia, se questo tempo è quello in cui si iberna e si muta, in cui ci si lascia modo di progettare il cambiamento, alla pelle del serpente il tempo di staccarsi per mostrare cosa c’è sotto, di nuovo e inatteso. Di sconosciuto a quelle che eravamo e di familiare a quelle che stiamo diventando. L’immaginazione si arrovella quando gli spazi si fanno stretti e visioni di mondi nuovi covano negli animi nostri proprio quando siamo state troppo tempo al buio e nascoste. Sopportiamo come dici, ma solo se la sopportazione è il pensiero gemello della visionarietà, quella che di già scorge un nuovo inizio.