di Francesca Maffioli e Laura Marzi
Illustrazioni di Isia Osuchowska
Cara Gorgia,
eccomi di nuovo a te in questo tempo che è quello di un’eccezione che pare non finire, in cui tanta vita e tanto elucubrare vengono spesi sul rispetto delle regole, su quanto siamo incapaci di garantirlo, su quanto non ne possiamo più di essere ligie, in attesa costante di una nuova legge che ci conduca di nuovo tutte alla normalità.
Non sono qui però a scriverti per cercare di sapere da te che cosa ci aspetti, quanto ancora durerà l’egemonia del morbo sulle vite di tutte noi, vorrei farlo, lo ammetto. Vorrei che tu da filosofa ti potessi trasformare per incanto nell’oracolo di Delfi e rivelarmi il futuro, svelarmi il tempo della soluzione. Non abbandono, però, almeno non con te, la strada del logos, della razionalità, non cederò, no, al rarefarsi della lucidità, ponendoti invece una domanda sul presente, sulla realtà.
La nuova prassi richiesta per tentare di arginare il diffondersi del contagio ci impone la distanza, di parlarci a qualche metro, di non toccarci. Tanto si è detto e si è cogitato sugli effetti devastanti e disumani di questa assenza di abbracci, che ci viene imposta in nome della salvezza dell’umanità e su questo poco possiamo aggiungere, io credo, mia diletta Gorgia. Ti interrogo allora sull’assenza. Sappiamo bene perché aedi e poete ce lo dicono da sempre che essa accende il desiderio, orbene ne siamo consapevoli. Ma l’amore, Gorgia cara, l’amore nell’assenza, che cos’è? È esso nostalgia, illusione, fantasticheria? L’amore che non sconfigge la solitudine, non concede conforto, che non unisce neanche in questo tempo di distanziamento coatto, è esso solo e soprattutto negazione della saggezza?
Noi siamo filosofe itineranti, la nostra scuola ce lo impone, di discettare nelle agorà e nel silenzio delle nostre stanze, spesso lontane dai nostri affetti più cari. Eppure abbiamo saputo resistere all’assedio dell’assenza, ma ora? Non è forse questo un tempo in cui necessaria si fa la consuetudine di uno sguardo regolare, di un bacio sulla soglia, della eco di due piatti e due cucchiai? E se proprio io, La Protagora, sentissi cedere la mia resistenza? E non ho scuse di libertà, soggetta al coprifuoco, da addurre al mio dolore.
Protagora cara,
essendo Sofistiche e non le Pizie (che tuttavia, non mi dispiacerebbe…), seguo il tracciato dei tuoi interrogativi confessandoti un segreto: in questi tempi mi capita spesso di sognare le parole volanti delle profetesse di Delfi e quando me le ricordo esse mi raccontano i tempi che ci aspettano, di cambiamenti inevitabili: di soglie scure, scurissime e poi di luce fioca di lucciole, ma presente e ancora luminosa.
Sai, leggerti in questo tempo dell’eccezione senza data di scadenza mi dispone a percepirmi come una vivente tonta, a dir bene attonita – in una bolla trascinata su una linea del tempo che non avrei mai previsto. E risponderti in merito a quanto mi chiedi segue la stessa logica, cioè quella dell’eccezione, dell’urgenza che avrà termine o forse no. E se infatti si trattasse di faire face a urgenze ripetute? Se il presente che viviamo diventasse per aggiustamenti la norma che verrà.
Ma aspetta: devo sofisticheggiare, non dar voce alle Pizie!
Provo a pensare all’ora. Ebbene, sono confinata. Le risposte che fruttificano dai miei pensieri sono viziate da questo tempo dell’assenza, delle assenze e delle presenze immateriali.
Il mio passato da itinerante, come dici bene, è diventato un presente stanziale. In questa fissità fintamente tranquilla, le assenze sono ancora più chiassose.
Hai ragione quando scrivi che la consuetudine degli sguardi, dei baci e delle stoviglie che cozzano rumorose (e si spera felici…) può essere anche più che consolante. Ma può trasformarsi nel suo opposto, in un’antinomia in cui la convivenza beata è presente insieme a quella vegliata da Epiales, il dàimon degli Incubi.
Mi chiedi se sbagli a resistere? Oppure se sbagli a cedere infine? Dal canto del mio esperire imperfetto ti consiglierei di rischiare secondo il tuo desiderare. Di seguire il tuo desiderare dell’ora, anche se il germe del dubbio che si tratti di un errore ti balena insieme alla paura dell’antinomia spaventosa. Se il tuo desiderare del poi ti condurrà altrove, avrai provato ad assaporare i baci e i sorrisi aperti, ad ascoltare i battibecchi delle stoviglie leggermente sbrecciate. Avrai trasformato in realtà possibile il tuo desiderio di condividere le abitudini di un’altra e/o di un altro, desiderante a sua volta.