di Laura Marzi
Illustrazione di Anna Ciammitti
Studio la vecchiaia. Nei libri su cui cerco di concentrarmi da mesi si parla solo di anzianità. Nei racconti che leggo ci sono uomini e donne molto in là con gli anni, quando non li trovo devo passare oltre, cambiare storia, alla ricerca continua di vecchi. Se malati, è meglio. Scopro che la vecchiaia è l’esperienza della nostra identità più perturbante: “un tempo mi ero familiare – potrebbe dire un’ottantenne – e adesso chi sono? O non me lo ricordo o se la mia mente è intatta, come posso riconoscermi in un corpo che duole e che non risponde ai miei comandi più elementari: cammina! Prendi le buste della spesa! Alzati dal letto! Chinati, ti è caduto un bottone!”.
“Non voglio fare un figlio con te, perché ci sarebbe la pressione del tempo, ma mi piacerebbe, in futuro diventare padre”.
“Mi stai dicendo che io sono troppo vecchia, ma che possiamo restare insieme fino a che non troverai una ragazza da mettere incinta, senza la pressione dell’ormone antimulleriano?”
“Eh?”
Sono su un fianco, nel letto accanto a lui, mentre mi parla. Mi volto, mi metto comoda, supina, pancia e faccia al soffitto della mia minuscola camera da letto. Quanto devo essere superba, strafottente, quanta tracotanza comunico al mondo, se l’uomo che dice di amarmi risponde così alla mia domanda invero tardiva: “facciamo un bambino?”.
Ci lasciamo al tavolo della cucina, durante la colazione, entrambi coscienti che oltre il muro costruito nella notte non sapremo mai andare, nonostante ci abbiamo messo pochi minuti a erigerlo e anni interi, invece, a stare vicini.
Mesi dopo esco in cortile: c’è ancora l’insegna che lui aveva preso da un hotel dismesso, la cambio, lascio solo HOT, a campeggiare nel mio giardino di lusso. La sera stessa mi preparo come faccio da quando mi è tornata l’energia per sopravvivere, ma sono comunque incapace di essere serena: giro una canna, penso che mi aiuterà a non bere troppo e a non sentirmi abbastanza vicina agli altri da percepirne il pericolo e soprattutto farà nebbia sui mattoni rotti della mia femminilità, quelli rovinati dal tempo, in attesa di essere finalmente usati, la mia casa interiore non finita, la mia progettualità calabrese.
Mi raggiunge mentre aspetto un bicchiere d’acqua, voglio berlo e fumare l’ultima sigaretta prima di andare a casa. è giovane e sconosciuto.
“Cammini come se fossi in un roseto” mi dice.
Gli spiego delle cose mentre aspettiamo di essere dissetati, perché per me quel ragazzo che mi parla come se io non fossi una roccia infranta è uno studente, fa il liceo, do per scontato che non sappia alcune cose di geografia che io gli illustro, in fila davanti al bancone. Invece le sa, è già laureato.
“Sto partendo per il Caribe” afferma ridendo, mentre siamo seduti sui due braccioli di una poltrona abbandonata poco distante dal locale.
“Vuoi venire con me?” aggiunge, quando ormai mi è vicino.
Lo porto in bicicletta in un posto del mio quartiere che ha qualcosa di esteticamente accettabile, ci attendono gelsomini e un signore che dorme in strada. Ci baciamo a lungo lontano dai suoi sguardi, per non disturbarlo.
A casa mentre scopiamo, la mia pancia, alla luce della abat-jour, è un mare di pieghe, un’istantanea di decadenza.
“Lo so che pensi che il tuo corpo non mi piaccia, ma questi sono fatti tuoi” mi risponde qualche tempo dopo, mentre io cerco di spiegargli che non capisco come possa persistere la nostra storia, considerato che al mondo esistono donne bellissime della sua età, per cui il corpo non è ancora diventato una serie di dubbi. Del resto, ogni volta che mi dice che sono bella lo fa esprimendo sorpresa, ma questo non glielo faccio notare.
“Dovevi esercitare il tuo potere, essere rassicurante, ma anche indicargli la strada” mi dice un’amica mesi dopo, quando io e lui smettiamo di vederci.
“Sì, ci ho pensato molto. Avrei dovuto sentirmi più grande di lui, non più vecchia, ma allora che differenza ci sarebbe stata tra me e i milioni di uomini che accusiamo di fare mansplaining? Non ho mai capito chi inveisce contro la gerarchia solo fino a quando non ne è a capo. Ho creduto che l’unico dono che potessi fargli fosse la libertà, più libertà possibile”.
Lui se l’è presa tutta, fino a portarmi ad assaggiare il futuro, con tanto di poliamore, quando in un messaggio vocale mi dice che, accanto alla nostra, ha molte storie aperte, che lo mettono in confusione e che durante l’estate cercherà di viaggiare molto. Mentre lo ascolto, sorrido alla mia lontananza da ognuno, anche da lui, mi accomodo nella mia salvezza: quando avevo 25 anni come lui e non i miei 40 sarei impazzita di dolore se fossi stata una insieme a molte, ma allora non potevo permettermi un maschio alfa, e neanche adesso.
“Quindi tu sei convinto di essere di gran lunga più intelligente di tutti?”
“Sì, certo”. Mi risponde sorridendo e mi fa anche simpatia questo signore più vecchio di me di quindici anni con cui sto passeggiando. Nelle poche settimane in cui ci frequentiamo esercito più volte una forma di pazienza che ho visto agire alle mie zie, alle donne sposate da anni con uomini che hanno studiato, che conoscono il mondo, che sono creduti superiori alle loro mogli per statuto, per regio decreto. Smetto di accettare sorridendo la sua mal riposta convinzione quando lui, accecato dalla competizione, mi dà della sciocca. Accuso il colpo, mi fermo a pensare che forse è arrivato il momento di frequentare qualcuno che attacca come si deve, che mi aiuterà a smontare la spocchia che mi ha reso così una, così sola. Poi penso che stare con un uomo che considera superfluo ascoltarmi sarebbe un’ingiustizia che non mi merito.
Trovo in un racconto di quelli che devo scartare il personaggio di un giovane che fa innamorare una donna più grande: lui ama per conoscere, per appropriarsi dell’esperienza, per imparare e poi passa ad altro. Lei resta sua, fa nascere la figlia di cui è rimasta incinta senza dirglielo, le dà il soprannome che usava per lui.
Io non mi sono innamorata del giovane intraprendente e non ho dato neanche troppo peso al fatto che la mattina, al lavandino della mia cucina, in mutande, il suo corpo fosse perfetto, con i muscoli, la pelle, le ossa e l’uccello tutti insieme così placidamente in tiro, inevitabilmente compatti. Non mi sono arresa al confort di uscire con un uomo ultracinquantenne che, sulla base del suo successo lineare e progressivo, ha ritenuto giusto e necessario spiegarmi anche come aprire il finestrino della sua auto, dopo avermi in un primo momento intimato comunque di: “non toccare!”.
Eppure anche io sono un cliché: donna eterosessuale inizio a essere ossessionata dal mio invecchiamento e mi ricordo solo dopo il quarantesimo compleanno che la mia fica è parte di un apparato riproduttivo e non solo rivendicativo; votata al raggiungimento della mia indipendenza come una Melanie Griffith decisamente fuori tempo, dedita a dimostrare a ogni uomo che abbia mai avuto il coraggio di affrontare l’attrito che faccio, che in fondo mi è indifferente e che non ho nessun bisogno di lui, come non ne avevo avuto da piccolissima di mia madre, lei Melanie Griffith ante litteram.
Ciò che di più perturbante ho mai immaginato finora coincide con la normalità e mi coglie allora un desiderio di invecchiare per diventare un po’ estranea a me stessa, contenta nella condizione più banale: io, te e il mutuo da pagare