di bulander
Illustrazioni di Marilena Nardi
da Aspirina 2014
Era un bel vedere quella selva fittissima di canne da pesca lungo il Naviglio Grande, dopo il ripopolamento di trote e cavedani finanziato dall’Unione Europea. Poiché l’Italia non si era più ripresa dopo la crisi del 2008, una buona fetta della popolazione soffriva la fame. Mangiare il pescato era uno dei modi più economici per sfamarsi, i produttori di esche facevano affari d’oro.
Purtroppo il lunghissimo edificio dell’ex Richard Ginori, un tempo location cool per uffici e show room, dopo esser passato di mano ai principali gruppi di Real estate, in mancanza di clienti era stato adibito a campo di raccolta, di asilo, d’immigrati di tutti i continenti. Quanti fossero era impossibile calcolarlo, ma certamente non meno di 15 mila, ammassati come bestie in quelli che dovevano essere spazi per il design e la moda altamente sofisticati.
Tenere l’ordine lì dentro era impensabile, sicché la polizia aveva lasciato questo compito alle varie mafie etniche che spesso si combattevano. Gli esiti degli improvvisi sanguinosi scontri che scoppiavano tra cosche venivano gettati nel Naviglio.
Giù verso Porta Ticinese, alla Darsena, non di rado si vedevano galleggiare cadaveri in mezzo all’acqua sporca ed ai rifiuti, trascinati fin là dalla corrente. Le antiche società di canottieri avevano dovuto traslocare. Era un casino, perché in pratica da San Cristoforo in giù non si poteva più pescare. Peccato perché l’acqua, chiudendo le industrie e consumando assai meno la gente, era diventata limpida e si poteva fare il bagno.
Io avevo una canna da pesca al carbonio, ereditata da mio nonno, valeva un patrimonio e temevo che qualcuno un giorno mi facesse la festa per impadronirsene. Quanto a esche poi, avevo i miei segreti e alla sera il cibo non mi mancava mai, anzi qualche volta potevo invitare gli amici per una grigliata davanti alla baracca con tetto in lamiera dove avevo dovuto trasferirmi per non pagare l’IMU.