Minoranza silenziosa

della Misantropa
Illustrazione di Federico Zenoni

Lo confesso, odio il rumore. È una condizione fisiologica, ce l’ho sempre avuta, ma con gli anni è peggiorata.
Forse perché è peggiorato anche il rumore, quello che chiamano l’inquinamento acustico, e di cui non sembra fregargliene niente a nessuno, ancor meno che degli altri tipi di inquinamento.
Amo il silenzio, questa cosa rara che la maggior parte dei miei concittadini sembra temere più del covid, dell’inflazione e della guerra.
Sarò l’unica al mondo ad amare il silenzio? o esistono altri diversi come me?
Mi guardo intorno, ogni tanto mi sembra di cogliere dei segnali – uno stringere di denti sotto la furia dei decibel, un furtivo tapparsi le orecchie – e penso che forse non sono la sola, forse faccio parte di una minoranza oppressa e clandestina.
Una minoranza silenziosa, naturalmente. Troppo idiosincratica per costituirsi in movimento, troppo timida per rivelarsi se non con la fuga, come gli ungulati superstiti nei boschi nostrani.
Anch’io taccio per codardia, si capisce. Mi ricordo ancora di quella volta che ho osato esprimere il mio disagio per l’usanza dei tifosi di festeggiare la vittoria della loro squadra tenendo svegli tutti gli abitanti del centro fino alle cinque del mattino a suon di clacson, e sono stata definita una snob elitaria che guarda dall’alto in basso il divertimento popolare. In quanto alla mia ferma opinione che a mezzanotte i bambini dovrebbero trovarsi nei loro lettini, profondamente addormentati nell’abbraccio dei loro peluche preferiti, anziché al ristorante a scorrazzare tra i tavoli rovesciando le sedie o sotto le mie finestre a urlare e tirare pallonate nelle serrande, la esprimo solo sottovoce a persone fidatissime, per non incorrere nella condanna sociale ed essere trattata peggio di una sterile in una comunità chassidica di stretta osservanza.
Me ne vado in giro per la strada e guardo la gente chiedendomi cosa spinga gli esseri umani a litigare al telefono a voce altissima, a sventagliare raffiche di musica dalle auto, a riempire di polvere da sparo le marmitte di moto e motorini.

 

La gente odia il silenzio perché teme che ci si annidi un qualche pensiero?
E quelli che passano con lo sguardo perso nel nulla, lasciandosi dietro dagli auricolari un riverbero di percussioni? hanno paura che il silenzio gli salti addosso a tradimento dietro un angolo di strada? scacciano il rumore con altro rumore?
Sì, lo ammetto, molta di quella che viene definita musica dagli amanti del rumore per me è semplicemente, e tragicamente, rumore.
Anche la voce umana, questo nobile e prezioso strumento così spesso scordato, sembra far di tutto per trasformarsi in rumore.
E se si trattasse invece del terrore di scoprire che, se non si fa rumore, si è già morti?
È vero che in caso di lutti ufficiali si osserva un minuto di silenzio – un minuto! giusto il tempo di controllare il cellulare o fare mentalmente la lista della spesa – ma ormai anche ai morti viene servita la loro dose di rumore, forse per illuderli di non andare incontro al silenzio eterno. Nei funerali, dopo le rituali eulogie di parenti e amici – l’equivalente sonoro dei pupazzetti messi sulle tombe degli infanti – è tutto uno scrosciare di applausi mentre il feretro cala nella fossa, una cosa che, al posto del defunto, mi lascerebbe alquanto perplessa: applaudono me o la mia dipartita?
O fare rumore è un modo di segnare il territorio? di dire, gridare, tuonare, esplodere: Io esisto! ci sono! sono qui! questo pezzo di strada (marciapiedi/ballatoio/panchina) è mio!
Un autentico grido popolare, da diseredati, da nullatenenti, anche perché chi possiede ville con parco in collina o intere isole non ha certo bisogno di segnare il territorio in altri modi.
Lo spazio sonoro, insomma, l’aria che tutti respiriamo, che ci entra dentro dal naso, dalla bocca e ahimé dalle orecchie, come unico territorio ancora rivendicabile.
Se le cose stanno così, è chiaro che non c’è speranza per noi minoranza silenziosa. A meno che non possediamo ville con parchi collinari o intere isole, non abbiamo modo di affermare che esistiamo. Ma io esisto? comincio a dubitarne, visto come quella porzioncina di aria respirabile e silenziosa che dovrebbe spettarmi per pura legge statistica è costantemente e allegramente invasa.
Però per fortuna esiste ancora, da qualche parte, in luoghi privilegiati e remoti, il silenzio.
Si tratta quasi sempre di posti ampi e spopolati, spesso verdeggianti ma a volte anche rocciosi, o sabbiosi, o acquatici – dove il silenzio, questa entità meravigliosa e indefinibile, è tramato di frusci di canne, sciacquio di onde, note di uccelli, frinire di insetti o respiri di vento.
Luoghi del genere sono sempre più rari, e comunque non si trovano dalle nostre parti, dove casomai ne fosse scoperto uno verrebbe subito colonizzato da ruspe, fuoristrada e airbnb.
Di solito quindi mi accontento dei piccoli silenzi casalinghi che la sorte mi regala, quando i vicini sono in vacanza, la pizzeria di sotto è chiusa per malattia o fallimento, o un black out improvviso spegne, per qualche beato minuto, tutti i rumori nel raggio di cinquecento metri.
Finché non scatta l’immancabile antifurto.
Dicendo che odio il rumore intendevo, ovviamente: il rumore umano.
Ci sono rumori, o potremmo chiamarli suoni, o perfino musiche, che ascolterei per ore, rumori che conciliano il pensiero, la contemplazione, il sonno:
– il mare con le sue onde che si inseguono una con l’altra senza raggiungersi mai, senza fermarsi mai,
– la pioggia che cade sui balconi e i davanzali, nelle pozzanghere, ora monotona e uguale, ora sincopata e capricciosa, come un’improvvisazione jazz,
– un ruscello che dalla montagna si butta verso valle, con giovanile impeto e ignoranza di quel che l’aspetta laggiù,
– la neve che scende sui tetti, il rumore più silenzioso che esista, e ormai uno dei più rari,
– i gridi degli uccelli prima dell’alba, nei giorni d’estate, screanzati e spudorati, litigiosi, affamati, felici e arrabbiati, perché anche loro forse, gridando, non fanno altro che segnare il territorio.

Ed è quello che faccio anch’io, alla fine, mentre pesto sui tasti della macchina da scrivere a ritmo ineguale, uscendo da me ed entrando in altre storie, producendo il rumore delle parole che nascono, una in fila all’altra, tra piccole pause pensose di silenzio.

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