di Margherita Giacobino
Illustrazioni di Federico Zenoni
Rauma è una piccola città della Finlandia a qualche ora di macchina da Helsinki. Il suo centro è più o meno come doveva essere cento anni fa, un agglomerato silenzioso di basse case di legno dipinte di giallo o di azzurro, con i cortili erbosi e gli alberi di meline rosse.
Ci arrivo un giorno di fine agosto, quando in Finlandia le vacanze sono già finite, i ragazzi hanno ormai ripreso la scuola e la vita scorre normale, preparandosi al breve autunno e all’inverno lungo. C’è quel cielo, il cielo del nord, alto e immenso ma con le radici nella terra, un cielo tangibile. È azzurro pallido e grigio sotto la pancia delle nuvole che, come in un film di Kaurismaki, viaggiano. E viaggia anche un profumino di pesce fritto che a quest’ora risponde a un desiderio profondo dell’essere, un desiderio non solo di nutrirsi ma di accoglienza, di casa. Lo seguo e mi porta nella piazza principale, quella dove si affaccia il municipio, un edificio appena più alto degli altri, che fa pensare a un barcone da pesca in secca.
Il mercato in piazza si va spopolando; tra poco i venditori di pane e dolci casalinghi, di patate, cipolle, bacche rosse e funghi gialli smonteranno le loro bancarelle e se ne andranno anche loro a pranzo. L’odore viene da una tenda a strisce gialle e azzurre con un fornello in fondo e un bancone davanti. Sotto la tenda c’è un uomo sulla sessantina che si pulisce le dita sulla pancia coperta da un grembiule a righe e maneggia una paletta di metallo. È il friggitore di aringhe fresche. Per averne una porzione bisogna aspettare, perché davanti allo stand si è radunata la piccola folla rimasta, perciò mi metto in coda.
È lento, l’uomo delle aringhe. Almeno così sembra a me, abituata alla velocità, a volte più esibita che effettiva, con cui ti servono nei bar e nei chioschi, soprattutto da noi. Ma non ho nient’altro da fare, essendo in vacanza e di passaggio a Rauma, cittadina famosa per aver conservato pressocché intatte le sue antiche case di legno, oltreché per i merletti lavorati da generazioni di donne che in quelle casette di legno sono vissute, coltivando meline rosse acidule e ribes e rabarbaro negli orti e tirando su l’acqua dai pozzi coperti da tetti di assi inchiodate a forma di piramide.
Faccio la mia prenotazione in inglese, l’uomo risponde con poche parole sicure e corrette che gli danno un tocco inatteso di professionalità e competenza, come se gli avessero cucito sul grembiule unto un pedigree di fornitore di aringhe delle real case di mezza Europa da sedici generazioni.
Non avere niente da fare, neppure assolvere ai tuoi obblighi turistici, è un lusso a cui non siamo più abituati. Non avere niente da vedere, nessun museo palazzo rudere o paesaggio, niente tranne una piazza e la gente. Rischi di vederla davvero, questa gente, e la gente ti fa sempre pensare, ti manda dei messaggi che non sono affatto semplici smaglianti e rassicuranti come quelli della pubblicità. Aspettando posso girare il piccolo mercato e comprare una pagnotta da una ragazza bionda e sorridente, e chiedermi cosa fa, cosa si aspetta dalla vita, lei così giovane in quella lontana periferia del nord, dietro le sue merci dall’aspetto semplice, quasi povero. E pensare ai film e ai romanzi dove ti raccontano che i giovani hanno bisogno di emozioni e di grandi città, e non sopportano il silenzio e la mancanza di sorprese.
E posso bere un bicchiere di succo di ribes nero appena spremuto, delizioso.
Anche le aringhe sono deliziose, e poche, appena un assaggio.
Alzo la testa e scopro lo sguardo divertito dell’uomo delle aringhe su di me. Spia la mia reazione e ne è soddisfatto.
Sappiamo entrambi, lui e io, che mi rimetterò in coda una seconda volta per averne ancora.
Ma stavolta rimango a guardarlo mentre lavora. Prende i tranci di pesce da una vaschetta d’acciaio, a uno a uno li farcisce con un trito di erbe, li chiude premendo con le grosse dita, li infarina e li mette a friggere nel burro. La cottura richiede continua attenzione, una controllatina qui, uno spostamento là, un’aggiunta di burro.
Una parte di me si chiede: perché non fa più in fretta? perché non usa due fornelli anziché uno? perché non si organizza in modo da produrre di più? Già, ma per chi? Qui, passata l’ora di pranzo, non c’è più un’anima. Che ne sarà del pesce invenduto?
Potrebbe trasferirsi in una città più grande, assumere un aiutante, creare una catena di bancarelle in franchising. Decine, centinaia di tende a strisce gialle e azzurre, Le aringhe di Rauma, lungo le sponde del Baltico.
Ma ce la farà a coprire i costi con quel che vende?
Lo guardo con occhio critico, monetizzo il suo lavoro, oscillo tra imprenditoriali sogni di grandezza e angosce di fallimento.
So cosa vuol dire fare i conti, i numeri rischiano di travolgerti, se sei in passivo non dormi per la paura di fallire, se sei in attivo non dormi per l’assillo dei progetti di espansione. Che poi nascono dalla paura che, siccome sei un pesciolino bello grasso, arrivi un pesce più grosso di te e ti mangi, quindi in fondo sempre di paura si tratta.
È così che per dimenticare la paura ho deciso di investire il surplus economico in una vacanza e non pensarci più. Niente fallimento, niente espansione. Vado via per restare dove sono.
Guardo l’uomo delle aringhe, affascinata. La gente aspetta calma ma attenta mentre lui calmo e sicuro mette un pizzico di erbe dentro un trancio di aringa, lo richiude con cura, lo rivolta nella farina dandogli qualche colpetto con il palmo della mano. Lui sa come si friggono le aringhe, quanto tempo ci vuole, quanto pepe.
Quest’uomo è un artista.
Un iniziato, il depositario di un segreto antico.
E noi, gli spettatori, siamo una comunità che partecipa a un rito. In rispettoso silenzio, guardiamo un uomo fare il suo lavoro, prendere il suo tempo, preparare il nostro pranzo.
Penso agli antichi dipinti che ritraevano piazze e mercati e banchetti e c’era sempre qualcuno che stava a guardare a bocca aperta un saltimbanco, un cuoco, un mangiatore di fuoco. Penso a come guardavo da piccola il falegname nel mio cortile e le mani di mia zia che tiravano la pasta sul tavolo.
C’è dignità nell’uomo delle aringhe, c’è orgoglio. Friggere aringhe non sarà come dirigere una multinazionale o fare il creativo pubblicitario, ma a lui in questo momento non interessa. Non fa confronti, non è frustrato. Sa che lo guardiamo, che ci fidiamo di lui.
Si esibisce per noi, è consapevole dei nostri sguardi, ci tiene a bada con battute scherzose. Capitalizza il nostro appetito, ci restituirà l’attesa con gli interessi. Ha il senso dello spettacolo, è evidentemente un requisito professionale dei friggitori di piazza.
Noi ormai lo seguiamo col fiato sospeso, di ogni pezzo di aringa fumante ci chiediamo: quella lì sarà la mia? e la teniamo gelosamente d’occhio mentre lui la rigira nel grosso tegame da cui ogni tanto sfugge una lacrima di grasso che stride sulla fiamma blu del fornello.
Lui ci sorride paziente come una mamma che sta per servire i figli a tavola, segreto come un mago.
È un po’ poeta, quest’uomo dalle mani che puzzano di aringa.
Perché il bisogno di onore sia soddisfatto nella vita professionale, ha scritto Simone Weil, bisogna che a ogni professione corrisponda qualche collettività davvero capace di serbare vivo il ricordo dei tesori di grandezza, di eroismo, di probità, di generosità, di genio, prodigati nell’esercizio di quella professione.
Rauma si trova sul Golfo di Botnia, grande insenatura del Baltico tra la Finlandia e la Svezia. Penso a quant’è importante qui il mare, l’acqua, penso alle migliaia di isole e isolette e laghi di questa terra, all’acqua che sta ovunque, brulicante di pesci. Penso al mare e ai pesci, ormai precaria riserva di cibo del mondo, e alle epopee dei marinai di tutto il globo, dal capitano Achab ai Malavoglia, penso alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai pescatori di anime, e d’improvviso mi è chiaro che le aringhe sono una cosa seria, e che in qualche modo gli abitanti di Rauma hanno saputo serbare nel profondo dei loro cuori il ricordo di grandi, eroici, probi, geniali e generosi marinai e pescatori e mostri marini e pesci, e, last but not least, friggitori di aringhe.
Su quest’uomo si riverbera un po’ di un’onore antico, anche se frigge su un fornello a gas anziché su un fuoco di legna.
E noi qui riuniti in attesa del nostro pranzo lo sappiamo. Lo sentiamo, lo respiriamo nel profumino di fritto che sale su nel cielo alto, verso le nuvole che viaggiano.
E mi chiedo quanti, tra quelli che conosco, hanno una professione. E quante professioni possiedono ancora un onore.
Ed è proprio qui a Rauma, mentre aspetto le mie aringhe, che penso a te. Una faccia come tante, un nome come tanti, però il tuo lo ricordo per via che durante il colloquio ti sono crollati i nervi per motivi tuoi e ti sei messa a singhiozzarmi in ufficio, bagnandomi la scrivania di lacrime e raccontandomi i tuoi ventisei anni di vita. No, non preoccuparti Elena, non sei la sola che si lascia andare; succede. Anzi è stato quel calore confuso e ansioso che veniva da te, bagnato di lacrime, a renderti simpatica, umana. A farti ricordare.
Tu eri una di quelli che a paragone Amleto è un tipo decisionale e con le idee chiare. Tu volevi un lavoro, lo cercavi disperatamente, ma non volevi impegnarti. Il lavoro per te non era importante, non era – parole tue – una dimensione primaria della vita. Viaggiare, ecco il tuo sogno (e mentre lo dicevi ti si accendevano gli occhi, e io vedevo nelle tue pupille i mari del Sud e le spiagge paradisiache che esistono solo negli spot degli abbronzanti). Ma come andarsene di casa, visto che tua madre era disoccupata e depressa e tuo padre in cassa integrazione? Per fortuna c’era il tuo ragazzo, però come coppia stavate affrontando una grossa crisi.
Avevi un diploma di giardiniera, ma chi ha bisogno di una giardiniera? in comune i concorsi erano bloccati, e i privati – i proprietari delle ville con giardino su in collina – volevano gente esperta di sesso maschile.
Quando sei arrivata da me non sapevi fare niente e avevi già fatto undici lavori, tra cui: cameriera in pizzeria, promotrice di cosmetici in un centro commerciale, barista in una sala bingo, operatrice di call center, pulitrice di scale.
Eri caduta dalle medesime, scivolando sull’acqua saponata. Ti eri lussata una caviglia e ti avevano licenziata. Avevi così scoperto di essere in nero, senza malattia né infortunio.
Per punirti del tuo incidente, non ti avevano pagato gli ultimi quindici giorni.
Era per questo che zoppicavi. E piangevi.
Tu non lo sai, ma per cinque minuti io ti ho assunta. Aver messo su una piccolissima azienda che sta funzionando, che cerca personale, che ti permette perfino di fare una vacanza, se pure breve, nei costosi paesi scandinavi – a che serve tutto questo se non puoi assumere una ragazza che ha bisogno di lavorare? E se lei è una foglia al vento, perché non puoi essere tu il vento che la sospinge verso un porto sicuro – o dov’è che vogliono andare le foglie?
Questo pensavo, o meglio sentivo perché non era certo un lucido pensiero ma un’opaca onda emotiva, mentre ti porgevo una confezione di fazzoletti di carta.
Tirando su col naso tu mi dici che hai buona volontà, ma il tempo e le occasioni ti sfuggono fra le dita. Ti senti predestinata all’insuccesso.
Io invece, almeno per cinque minuti, mi sento responsabile per te.
Responsabile, è esattamente ciò che tu non vuoi sentirti. Ti fa paura, dici. Un lavoro fisso, troppa responsabilità.
Il friggitore ha seguito con occhio vigile tutte le sue aringhe. Non una ne ha lasciata bruciare o dimenticata in un angolo del tegame. Ora mi porge il mio cartoccio, e mi metto a mangiare con discrezione, un po’ più in là, per non ostentare la mia fortuna con quelli che ancora attendono.
Squisite. Né troppo cotte né poco. Né troppo salate né sciape. Aringhe responsabili. Mangio lentamente. Mastico con solennità, come se il piacere che provo mangiando rendesse onore a tutti i pesci, tutti i pescatori e tutti i friggitori di aringhe del mondo, in questo mondo che non è giusto né privo di crudeltà ma in cui esistono momenti di grazia, e questo se pure minimo è uno di quelli.
E poi, hai detto nel momento preciso in cui io stavo per buttarmi nel vuoto e proporti un periodo di prova, devo rispettare i miei tempi, non avere fretta: e se faccio la scelta sbagliata, e perdo degli anni della mia vita in un lavoro che non è il mio?
Naturalmente non ti ho detto che gli anni della tua vita li stavi perdendo comunque, o comunque vivendo, e che nessun lavoro mai sarà tuo se non sai afferrarlo e renderlo tuo.
Cosa avevo da offrirti? Un lavoro a tempo indeterminato in una piccolissima azienda che non ambisce a diventare più grande, stipendio sindacale, ferie tredicesima contributi, norme di sicurezza. Nessuna mansione da giardiniera, non abbiamo giardini, solo un cortile con un nespolo intrepido e il parcheggio per le auto dei condomini. C’è qualcosa in tutto questo che valga la pena di essere afferrato e reso tuo?
Avrei potuto dirti che magari col tempo al lavoro ci si affeziona, ci si trova un interesse, o ci si rassegna, a volte è difficile capire quale delle tre o magari una combinazione di tutte e tre, si diventa esperte, le mani lavorano da sole, la mente prova piacere nel risolvere piccoli problemi di tutti i giorni, e ci sono perfino momenti in cui gli occhi si alzano da soli a guardare le nuvole oltre il soffitto, e non si ha fretta e non si ha ansia, e non si è scontente della propria vita e contemplare l’impossibile non sembra una frustrazione ma quasi una remota dolcezza.
Mi avresti guardata con gli occhi fuori dalla testa. Avresti pensato: ma come parla questa?
In quel momento mi hai detto che non credi abbastanza in te stessa. Che non è giusto che tutto sia così difficile. Che in questa fase della tua vita non vuoi stressarti.
Mi siedo sull’unica panchina della piazza. L’uomo delle aringhe ha quasi finito, per oggi. Consegna un ultimo cartoccio, si guarda intorno in attesa dei ritardari. Pulisce il bancone con un panno.
Immagino che tu sia seduta qui accanto a me a osservarlo.
Non ti direi che guadagna bene, che è realizzato, che va in vacanza alle Mauritius. Probabilmente non ci va. D’inverno farà freddo, sotto quel tendone. Sicuramente non è ricco. Se non è solo, quelli con cui vive si saranno dovuti abituare all’odore di pesce fritto che si porta addosso costantemente.
Ma alla fine cosa gli resta? chiederesti tu. Niente soldi, niente glamour, niente successo. Niente bella vita su una spiaggia tropicale, e perdipiù è vecchio e ha la pancia, le donne lo snobbano di sicuro, la sua vita sessuale sarà un mortorio.
Che potrei risponderti? Che magari la sua vita non gli dispiace? Che gli resta l’onore del suo mestiere?
Tu forse ci penseresti su e – siccome sei una romantica – diresti che sì, va bene, è un concetto che ha il suo fascino e ti piacerebbe tanto, ma da noi è diverso, per te è diverso, sei di un’altra generazione, hai altri riferimenti. Se parlassi di onore, di mestiere, di dignità ai tuoi coetanei penserebbero come minimo che sei fumata.
Giusto.
L’onore cresce nel giardino comune, non si può pretendere che viva solitario nella mente di una ragazza di ventisei anni come un cactus nel deserto.
Ti sei alzata e te se ne sei andata, Elena, o forse ti chiamavi Cristina o Debora o Sabrina, forse era Cristina quella con il padre in cassa integrazione, o Debora quella che voleva fare la giardiniera, e tu Elena eri solo quella che è uscita stringendo il kleenex bagnato di lacrime e l’ha buttato per terra appena fuori, l’ho visto sul marciapiedi poco dopo.
Sì sei stata tu a mettere fine al colloquio e a salvarmi dal proposito di assumerti.
Te ne sono grata.
Chiunque tu sia, Elena, in questo momento ti immagino in stivaloni di gomma sporchi di terra, guanti da giardiniera, cesoie che spuntano dalla tasca della tuta. Fai un passo indietro e contempli con orgoglio la tua creazione, l’aiuola dei giardini Lamarmora, una nuvola curvilinea di impatiens bianche rosa e malva, un tantino leziosa ma molto adatta alla panchina tutta bianca su cui a San Valentino il comune fa sedere due fidanzatini alla Peynet in filo di ferro. È un giardino piccolo e curato, ha perfino due gelsomini a forma di cuore, raro esempio di arte topiaria nella nostra città in cui le aree verdi spesso languono trascurate per penuria di fondi.
Mi lecco le dita che sanno di sale e di pesce, accartoccio la carta delle aringhe, cerco un bidone in cui gettarla.
Il friggitore ha cominciato a smontare la sua tenda.
Tra poco la piazza resterà vuota, sotto il cielo azzurro e grigio lucente in cui viaggiano le nuvole.