di Daniela Taiocchi
Illustrazione di Federico Zenoni
Nel suo articolo Elaborare la catastrofe Paolo Barcella ci ha parlato di un memoriale delle vittime di Covid a Bergamo. Abbiamo cercato Daniela Taiocchi, la giornalista che ha diretto l’installazione, per conoscere la storia.
“Abbiamo spento il memoriale mercoledì 3 giugno: un grande schermo a Led di sei metri per tre che avevamo installato il 30 aprile sul balcone del nostro giornale, L’Eco di Bergamo, e dove abbiamo caricato oltre 5000 dei 6000 morti di questi mesi.
Non abbiamo potuto salutarli durante la malattia e nemmeno fare loro il funerale perché gli ospedali erano pieni da far paura e i familiari non potevano nemmeno salire sull’ambulanza per accompagnare al pronto soccorso i propri genitori. Non abbiamo potuto vederli nemmeno dopo, perché eravamo chiusi in casa e le bare sono state portate nelle chiese di Bergamo e Seriate. Li avete visti anche voi i camion dell’esercito che poi hanno trasportato le bare nei forni crematori delle altre città.
Qualche sindaco ha tentato una minima cerimonia per la riconsegna delle ceneri, ma i familiari non potevano essere presenti. Proprio in quei giorni di metà marzo, quando le pagine delle necrologie sono passate da due e mezzo di media (con 17 morti normalmente ospitati quotidianamente sul giornale), siamo arrivati a 7, 8, 9, 10 e fino a 13 pagine, arrivando a 140 morti in un giorno, i giornalisti d’inchiesta hanno cominciato a scrivere ai Comuni per raccogliere i numeri dei defunti che venivano registrati e noi abbiamo sentito il bisogno di dare corpo ai troppi singhiozzi che sentivamo. Per la cronaca: i morti dichiarati dalla Protezione civile erano 2060, quelli che abbiamo calcolato sommando i decessi raccolti dai Comuni erano 4500, poi diventati presto 6000. Un numero impressionante in due mesi se pensiamo che in un anno intero a Bergamo e provincia muoiono circa 5000 persone.
Ve lo dico perché ogni anno, per il giorno di Ognissanti, L’Eco di Bergamo edita un libretto dove raccoglie tutti i morti dell’anno alternando i nomi a preghiere e pensieri. Li consegna ai parroci i quali, non potendo leggere tutti i nomi, durante la messa inseriscono il libretto nel tabernacolo.
Bergamo è una terra dove la morte è addomesticata. Dove non è normale morire da soli, dove i morti stanno nelle case per qualche giorno per accogliere parenti e amici in visita e dove i funerali sono pieni di gente.
Bergamo è anche la terra dei dipinti della Danza macabra dove lo scheletro danza con il Papa, l’imperatore e il contadino, ovvero dove abbiamo coscienza del fatto che la morte azzera le gerarchie della vita.
Bergamo è la terra dove ancora oggi curiamo le cappelle dei morti della peste del 1630, della spagnola di inizio secolo, dove ogni anno riempiamo di fiori i monumenti dedicati ai morti della prima e della seconda guerra mondiale. Ma questa volta non c’è stato modo e tempo per tutto ciò.
Tornando al bisogno di dare casa ai nomi che vedevamo sul giornale, abbiamo attivato il dream team dei progetti speciali del nostro gruppo editoriale fatto di ingegneri, visual design, esperti di comunicazione social, content manager ed event planners, il presidente, uomini e donne dei database che, sotto la direzione della mia disperata sensibilità per il dolore, mi hanno seguito nella follia di voler squarciare il cielo per riportare per un attimo i volti e i nomi dei nostri cari in mezzo a noi.
Grazie al contributo di tutti è nato un contenitore di quasi 5000 volti e nomi pescati da chi aveva messo la necrologia sul giornale. Abbiamo aperto la possibilità di inserire anche defunti che per mille motivi non erano andati sulle pagine del giornale, ma soprattutto abbiamo lasciato la possibilità a tutti di inserire foto e pensieri per arricchire il racconto di ogni vita. Proprio da qui è nato il nome del memoriale Ogni vita è un racconto, perché a guardarci dentro abbiamo visto che è diventato un album di famiglia.
Non sono mancate le perplessità nel lasciare il video acceso notte e giorno all’aperto con tanto di vasi di fiori, biglietti e ricordi che venivano posti ai piedi dell’installazione. Così come non sono mancate le perplessità a lasciare aperta a chiunque la possibilità di inserire, senza moderazione, immagini e ricordi. Eppure …. Eppure non un fiore è stato spostato e non un messaggio è risultato fuori luogo. Il memoriale è diventato terreno “sacro”.
Quando abbiamo inaugurato il memoriale con la nostra amica violinista Klelia Cili pioveva a dirotto e abbiamo dovuto riprendere le immagini di lei che suona Over the rainbow sul terrazzino dei nostri uffici. Quando lo abbiamo spento scendeva una tempesta di pioggia che ha schiaffeggiato la tenda che avevamo montato e il poco pubblico presente. Una signora mi ha detto: “Sono loro che sono ancora arrabbiati per come li abbiamo fatti andare via, non meritavano una fine così” e indicava le foto che scorrevano. Forse.
Ora che la piazzetta è silenziosa e non c’è più l’Ave Maria ad accarezzare i volti mi pare di non sentire la terra sotto i piedi. Anche i fiori che Monica, un’amica di un vivaio della provincia, portava ogni giorno per cambiare quelli appassiti, hanno smesso di colorare il pavimento grigio.
Forse ho tolto tutto troppo presto, può essere, di certo mi resta una conquista. Senza radici nella memoria della comunità, il futuro ha il fiato corto. L’incertezza è spaventosa e alimenta il senso di colpa e la paura. Ma se ci stringiamo, possiamo trasformare le lacrime in racconto perché appunto, ogni vita è un racconto.”