di Ferdinando Fasce
Fotoritocco di Anna Ciammitti
Siamo a nemmeno cinque mesi da elezioni presidenziali statunitensi che cadono in un clima di incertezza senza precedenti per la “tempesta perfetta” venutasi a creare con la sovrapposizione del più pericoloso contagio dalla “spagnola” del 1918, della più grave recessione dal 1929 e della più seria crisi sociale e razziale dagli anni Sessanta. Sfumata da tempo l’opportunità di vedere Donald Trump sotto il torchio di una procedura di impeachment, prendiamo in parola quei sociologi d’oltre Atlantico che nei tardi anni Novanta del Novecento, di fronte all’inarrestabile processo di incarcerazione, spesso arbitraria, di persone, soprattutto afroamericane, per reati minori, dicevano che il sistema metteva in galera le persone sbagliate. Facciamo un passo indietro di un secolo e guardiamo la foto di un carcerato che sicuramente non si meritava di stare dietro le sbarre e che finì per diventare la prima e unica candidatura alla presidenza, nella storia del Paese, lanciata da un penitenziario. Era la fine della primavera 1920. Lo slogan era Votate il detenuto 9653. Campeggiava su una cartolina elettorale con al centro la foto di un anziano signore, calvo, il volto affilato, lo sguardo fisso sul futuro. Era Eugene Debs, 65 anni, il più famoso socialista della storia degli Stati Uniti, alla sua quinta candidatura alla presidenza, per la prima volta da un carcere, il penitenziario di Atlanta. C’era finito un anno prima, a seguito della condanna definitiva a dieci anni, sancita dalla Corte Suprema e dal celebre giurista Oliver Wendell Holmes, per un discorso pacifista tenuto da Debs nel giugno 1918. In quell’occasione, fedele all’intransigente opposizione alla guerra adottata dal piccolo Socialist Party of America, Debs, senza mai nominare direttamente il conflitto nel quale il paese era entrato nell’aprile 1917, aveva rivendicato le buone ragioni dei suoi compagni già arrestati per aver manifestato contro la guerra sulla base della legislazione d’emergenza di repressione del dissenso, l’Espionage Act, approvata poco dopo l’ingresso in guerra della repubblica nordamericana. Ed era finito così anche lui in carcere.
La candidatura del 1920 si risolse, come previsto, in un fallimento sul piano strettamente elettorale. In termini di voto popolare Debs superò addirittura, è vero, sia pure di stretta misura, il suo record precedente di 900.000 voti, stabilito nel 1912. Ma come percentuale scese dal 6 al 3,4%. Nondimeno, la grande campagna per l’amnistia a Debs, sostenuta da intellettuali, militanti e cittadini comuni in nome della libertà di parola, che si sovrappose alla kermesse elettorale e che continuò anche dopo la sua fine, è ricordata come una pietra miliare della storia delle libertà civili del Paese. Un momento decisivo della vicenda politica americana, grazie alla dignità di Debs, che seppe subito guadagnarsi la fiducia degli altri carcerati, diventando rappresentante delle loro istanze presso la direzione, nonostante il fisico provato da quasi mezzo secolo di battaglie per l’allargamento della democrazia, e grazie alla sua storia di rigore e coerenza costruita in quel mezzo secolo, dapprima in ambito sindacale, come ferroviere, poi nella sfera politica, nelle file del partito democratico, fra i populisti e per quasi un quarto di secolo fra i socialisti. Alla campagna, sostenuta dalla raccolta di migliaia di firme in tutto il Paese, parteciparono figure di rilievo come il giornalista John Reed, lo scrittore Upton Sinclair, l’avvocato Clarence Darrow e persino, fra quanti fecero lobbying a favore di Debs presso le autorità, l’emergente voce della trasgressione hollywoodiana al femminile Mae West.
La grazia, che gli fu negata da Woodrow Wilson con un gesto che non ne onorò l’ultimo mese trascorso alla Casa Bianca, gli arrivò inaspettatamente a Natale del 1921 dal più conservatore, ma non reazionario, neopresidente William Harding. E così alla foto di Debs che guarda severo davanti a sé vestito da galeotto si sovrappose quella di un signore altissimo, stretto nel suo completo nero, che saluta col cappello un’intera prigione che lo applaude, entusiasta, attraverso le sbarre. E il caso di questo socialista di salde radici cristiane diventava parte integrante, e costantemente richiamata, in un secolo di giurisprudenza successiva sulla libertà di espressione.