Storia di una fuga dalla schiavitù
di Margherita Giacobino
Illustrazioni di Isia Osuchowska
Nel maggio del 1796, sul Philadelphia Gazette and Daily Advertiser comparve un annuncio che offriva 10 dollari a chiunque contribuisse alla cattura di una schiava scomparsa, nientemeno che dalla casa del primo presidente degli Stati Uniti, George Washington. Si trattava di Ona Maria Judge, una “ragazza mulatta di pelle chiara, molto lentigginosa, con occhi nerissimi e folti capelli crespi – di media statura, snella e di forme delicate, sulla ventina”, fuggita qualche giorno prima mentre George e sua moglie Martha erano a cena, ovvero nel solo momento libero della sua giornata.
Ona Judge era una schiava privilegiata: all’età di dieci anni era stata scelta dalla padrona Martha Washington come sua cameriera personale, e invece di coltivare il grano o filare il lino nella vasta proprietà dei Washington a Mount Vernon, Virginia, passava le sue giornate nella magione padronale, indossava abiti adeguati, riceveva piccole mance, a volte veniva perfino portata a teatro. Come sua madre, Ona era una brava sarta e si occupava degli abiti di Martha, oltre che delle sue esigenze, umori e desideri.
Erano tempi di grandi cambiamenti: l’America aveva da poco conquistato l’indipendenza dagli Inglesi e i tredici stati si erano dati una costituzione ma erano tutt’altro che d’accordo su varie questioni, tra cui la schiavitù. George, il condottiero vittorioso e primo presidente, era un virginiano e la sua famiglia possedeva schiavi da generazioni. Si riteneva un padrone magnanimo, perché non frustava né vendeva i suoi schiavi se non per meritata punizione, e non separava le famiglie se non gli era strettamente necessario. Agli schiavi era proibito legalmente sposarsi, come pure imparare a leggere e scrivere, e ogni figlio che una donna metteva al mondo apparteneva al padrone di lei, quindi le gravidanze, in qualunque modo ottenute, erano un incremento di valore. Gli stupri erano all’ordine del giorno. Gli schiavi erano inventariati ogni anno, il loro valore cresceva o diminuiva con l’età, il peso, lo stato di salute, la capacità riproduttiva, le abilità acquisite.
Quando George Washington fu nominato presidente dovette trasferirsi a Philadelphia, allora la città più popolosa del paese e patria dei Quaccheri, che credevano nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani ed erano contrari alla schiavitù. A differenza che in Virginia, a Philadelphia vivevano molti neri liberi ed erano state promulgate leggi anti-schiavitù, tra cui una che imponeva a chiunque portasse i suoi schiavi in città di liberarli dopo sei mesi. I Washington pensarono di dribblarla con l’astuzia: ogni sei mesi facevano uscire dallo stato gli schiavi che avevano portato con sé, per farli rientrare poco dopo.
Ma anche i più sorvegliati dei non-liberi avevano occhi e orecchie per sentire il fermento attorno a loro. Molti fuggivano, dando lavoro ai bianchi che esercitavano il mestiere di cacciatori di schiavi. Ona aveva ventitré anni quando prese la grande decisione, e ad aiutarla fu la comunità nera di Philadelphia, che le procurò un passaggio in nave fino a Portsmouth, dove si stabilì e cercò lavoro. I Washington erano furiosi per quella che appariva loro la fuga immotivata e impertinente di una “ragazza allevata & trattata più come una figlia che come una serva”, e la fecero cercare. George, che era verso la fine del suo secondo mandato, non voleva seguire il procedimento legale e reclamarla davanti a un tribunale, perché temeva lo scandalo e gli attacchi degli abolizionisti. Perciò decise di usare il suo potere e agire sottobanco, come spesso fanno i potenti. Ona fu riconosciuta e ritrovata, e per ben due volte, nel 1796 e nel 1799, emissari del presidente cercarono di convincerla a tornare. Le promisero che sarebbe stata liberata, che sua madre e le sue sorelle non avrebbero subito ritorsioni – il che era più che altro una minaccia – ma lei rispose che era libera e tale intendeva restare.
In quegli uomini tanto più potenti e ricchi di lei che vollero convincerla, ricattarla, blandirla, Ona deve aver suscitato, con il suo coraggio e la sua dignità, un involontario senso di rispetto, e molti dubbi sulla giustizia dei padroni. Infatti non la costrinsero con la forza. E quando, dopo i suoi rifiuti, decisero di andarla a prendere con le cattive maniere, lei era sparita, avvisata da qualcuno che stava dalla sua parte.
Ona Judge visse fino a settantacinque anni, si sposò, ebbe due figlie e un figlio; la sua vita fu dura e dolorosa, come tutti i neri liberi dovette affrontare povertà, sfruttamento e razzismo, e la morte le portò via tutta la sua famiglia, quella che si era creata perché quella d’origine non la rivide mai. Ma ebbe la libertà, imparò a leggere e scrivere, procurandosi quell’istruzione che in quanto schiava le era stata negata, e fu attiva nella chiesta Battista della sua comunità.
Nel 1845 il reverendo Thomas Archibald chiese a Ona di raccontare la sua storia per il giornale abolizionista Granite Freeman. Ona, che era ancora legalmente una schiava pur vivendo libera da cinquant’anni, era allora “una mulatta di pelle chiara, così chiara che potrebbe facilmente passare per bianca, di piccola statura, e pur se colpita da due successivi attacchi di paralisi, notevolmente eretta ed elegante nel portamento”. Disse di essere fuggita per due motivi: primo perché voleva essere libera, secondo perché la sua padrona intendeva regalarla alla propria nipote Eliza Custis, e Ona era decisa a non diventare mai la schiava di quella giovane donna bizzosa e tirannica.
Non si era pentita di aver lasciato i Washington, visto che poi aveva avuto una vita molto più ardua? “No”, fu la risposta, “ora sono libera e confido di essere diventata, grazie a questo, una creatura di Dio.”
“Non dimenticherò mai”, conclude Archibald, “il fuoco che ardeva nei suoi occhi appannati dall’età.”
Ona morì nel 1848. George Washington era scomparso nel 1799, disponendo per testamento che tutti i suoi schiavi venissero liberati dopo la morte di sua moglie. Martha, che di affrancare i propri schiavi (tra i due era lei la più ricca e ne possedeva di più) non aveva nessuna intenzione, liberò anzitempo quelli di George, perché essendo la sua vita il solo ostacolo tra loro e la libertà, aveva paura che qualcuno di loro la uccidesse.
La storia di Ona Maria Judge è stata recentemente raccontata da Erica Armstrong Dunbar nel libro Never Caught. Ona Judge, the Washington and their Relentless Pursuit of Their Runaway Slave, Simon & Schuster 2017.